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  Elij Bielutin
 
 

SCRITTI

La rivoluzione di Ely Bielutin

di Carmine Benicasa

Nel 1960 Emilio Vedova, Luigi Nono, Angelo Maria Ripellino diedero vita a "Intolleranza '60" per smagare l'originaria ritualità dell' arte e in particolare del teatro.

I temi del sacro e del divino li trasferirono sul piano sociale e li individuarono nella motivazione ideologica della conflittualità politica. Questa interrogazione / rivoluzione li ricollegava al dibattito degli anni Venti e Trenta, provocato da Mejerchol'd e Piscator, sul tema del teatro ideologico. I grandi temi della lotta politica si sostituirono agli antichi valori del sacro e del divino, propri di ogni evento teatrale antico.

A Mosca, in quei medesimi anni Sessanta, Ely Bielutin sfracellava con l'immane dismisura del suo uragano pittorico la menzogna ideologica della conflittualità politica alimentata dal Partito comunista sovietico, che pur affermando di voler superare ogni dualità e ricondurre all'unità originaria individuo e stato, al contrario aveva annientato il valore della persona come individuo e aveva reso lo Stato sovietico tiranno sanguinario sull'esistenza storica dei singoli cittadini.

Dopo l'abiezione dell'epoca di Stalin non era più possibile, per la pittura, raccontare la storia umana, la figura dell'uomo, il suo volto già cancellato dall'arbitrio del tiranno e dalle turpitudini dilaganti e onnivore di un partito assetato di violenze. Un unico gesto di vita restava al grande artista russo: cancellare l'immagine dell'uomo al fine d'impedirne la distruzione, sottrarre perfino il racconto iconico alla furia assassina del despota (singolo o partito), confondere segni e nodi di colore, farne un'oscura e impenetrabile matassa materica che fosse al contempo foresta di occultamento e spazio protettivo per l'identità della storia umana dell'individuo e divenisse luogo di deviazione per confondere e depistare l'arbitrio dei persecutori affetti dalla sete sanguinaria [...].

Fu questa grande pittura di torbide forme che sul quadro si faceva uragano e fuga, fu questa la grande pittura del "figlio di Rublëv", in quegli anni. Sottraendo la pittura alla comprensione, Bielutin iniziava a respirare – attendendola – la storia della libertà dall'oppressore.

Non era una lotta la sua pittura, piuttosto un evento di resistenza all'impero del male, e il cominciamento di un sentiero di liberazione. Non era né gesto politico né lotta di resistenza: era solo il rifiuto della resa e 1'atto di un "altro" gesto disperato per vivere ancora la vita. Questa pittura raccoglieva sulla tela forze, tensioni, energie, impotenze, conati di vomito e laceranti gridi di speranza per vivere ancora oltre 1'avida e ingorda voglia di morte dello Stato e del Partito sovietico.

Bielutin pose la pittura come inconciliabile e ineludibile terra di speranza e fuoco di vita, come evento che percuote la coscienza a narrare e narrarsi, come liturgia e luogo di anamnesi, rito della brace che tutto divora, ma non consuma [...]. "Il socialismo ha perduto – ha scritto Michail S. Gorbaciov – perché non ha tenuto conto della condizione dell'uomo, della natura umana".

La pittura di Bielutin è il racconto del cuore – nel rito della brace e nella cenere del colore – che narra ciò che non può non essere narrato. [...] La pittura fu per Bielutin fin dagli inizi ciò che non poteva non essere: atto espressivo e rivelativo di ciò che percuote, ferisce, risorge o libera lungo i giorni o nella liturgia delle stagioni – la coscienza dell'uomo.

 

Il materiale qui presentato è tratto dai volumi Il nostro paradiso e Altre galassie.

 
 

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