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Alfonso Frasnedi
 
   
     
 

L' Intervista

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Intervista a Alfonso Frasnedi di Armando Verdiglione

Senago, Villa San Carlo Borromeo, 22 agosto 1998

Lei nasce a Bologna. È primogenito?
Secondogenito. Prima c'è la sorella, con una differenza notevole di anni, perché ne ha tredici più di me. Diciamo che io sono stato un errore...
Un errore?
Un errore nel tempo!
Cioè, i genitori non si aspettavano...
No.
Ma, poi, sono stati contenti.
Penso di sì, me lo auguro per loro!
Erano entrambi in famiglia, i genitori. Il papà cosa faceva?
Costruzioni meccaniche.
In proprio?
No, per conto di altri. Lavorava per una ditta, era praticamente il capo...
Era responsabile di questo settore. E la mamma?
Casalinga.
La sorella ha studiato?
Ha studiato, non moltissimo. Si è diplomata in ragioneria.
E, poi, ha lavorato di conseguenza.
Ha lavorato per un po' di tempo...
Finché non si è sistemata.
Si è sposata.
Durante la guerra, Lei è alle elementari. Con la famiglia eravate sfollati?
In un piccolo paese, Marano, a una decina di chilometri da Bologna. Oggi mi chiedo per quale motivo avessero scelto quel paese, perché a duecento metri dalla nostra casa c'era una polveriera. Quindi, non era nemmeno un posto tanto sicuro! Comunque, la famiglia si trasferì lì e io non potevo discutere.
A Marano, Lei ha fatto le elementari.
Ho frequentato lì la terza e la quarta elementare, non ricordo bene. Ricordo che c'erano le suorine.
Della scuola elementare non ricorda nulla?
Direi di no.
Insegnavano disegno?
Sì, ma non era...
Non era gran che, all'epoca... E dopo?
Mi sono iscritto alle scuole medie.
C'era l'esame di ammissione?
Sì.
E, qui, c'era il disegno.
C'era il disegno. Ricordo che con l'insegnante di disegno c'erano sempre contrasti.
Era un uomo o una donna?
Un uomo, però non ci si ritrovava. Lui aveva apprezzato il fatto che io sapessi già disegnare — ho sempre disegnato...
Già alle elementari Lei disegnava, senza scuola.
Disegnavo a casa, così. Era un mio piacere, un modo per passare il tempo. Questo insegnante aveva apprezzato il fatto che io sapessi già disegnare, però mi costringeva a regole alle quali io non ero molto disponibile; così, ci furono contrasti, ricordo. I contrasti con gli insegnanti, io li ho avuti a tutti i livelli, fino all'Accademia di Belle Arti.
Alle medie, gli unici contrasti sono stati quelli con l'insegnante di disegno?
Sì.
C'era anche il latino.
Non che andassi benissimo... Ho sempre avuto problemi con le materie scientifiche. Con la matematica, per esempio.
In quali materie andava benissimo, alle medie?
Naturalmente, in disegno... ...
Nonostante i contrasti. ...
Poi andavo bene in italiano e in storia.
In italiano era molto sobrio o era prolisso?
No, sempre sobrio. È una caratteristica che mi porto dietro.
E diari non ne ha mai tenuti?
No.
Faceva quaderni di disegni?
Sì, disegni, ne ho fatti sempre tanti.
Che poi ha buttato via...
Sì.
Oppure qualche disegno Le è servito da ispirazione, dopo?
No.
Servivano solo per esercitarsi, poi li buttava via.
Sì, erano disegni che facevo per mio piacere; poi si perdevano.
Alle medie, ha intravisto un suo interesse specifico verso la pittura?
Non ancora.
Cosa pensava che avrebbe fatto?
Il periodo delle medie è stato drammatico, perché è morto mio padre.
Nel '47 Lei faceva già la terza media.
Facevo la seconda.
Di che cosa è morto Suo padre?
Di un tumore.
Improvviso, scoperto all'ultimo?
È stata una questione di mesi.
Non se n'era accorto prima. E, quando ha fatto gli esami, non sono stati in grado d'intervenire, è così?
Sono intervenuti, però in quegli anni, e ancora adesso, le cose erano critiche. Ma, allora, lo erano ancora di più. Quando morì mio padre, mia sorella era già sposata e mia madre non aveva nessun mestiere, sicché c'era qualche problema in casa. Io cominciai a fare qualche lavoretto, di pomeriggio. Facevo il fattorino. Prima in un negozio di abbigliamento, poi alla Gondrand, la ditta di spedizioni...
Come tanti giovanissimi, a quell'epoca.
Quindi, ho dovuto ripetere un anno, per questo impegno pomeridiano...
Ha perso la terza media?
La seconda. Così, ho dovuto lasciare, appena morto papà. Poi, ho fatto l'esame di licenza. Mi sono preparato privatamente.
Ah, per un paio d'anni ha lasciato...
Sì, ero iscritto, però non seguivo le lezioni. Ho fatto gli esami di licenza, poi l'esame di ammissione al liceo artistico.
Quel contrasto con l'insegnante di disegno fu nella prima media.
Come dico, è stato un contrasto molto limitato. Lui mi chiedeva d'impostare il disegno in un certo modo, mentre io ero per una maggiore libertà. Sono cose da poco queste, veramente.
Ma era bravo questo insegnante?
Non tanto.
L'esame di scuola media com'è andato?
Abbastanza bene.
Quando ha pensato d'iscriversi al liceo artistico? È stato in conseguenza della morte improvvisa del papà il fatto che, poi, si sia iscritto al liceo artistico anziché al classico?
In quel tempo, quando facevo quei lavoretti pomeridiani, conobbi una signora che aveva una trattoria. Lei mi prese a benvolere, e mi disse che suo fratello aveva una scuola privata di disegno, che si chiamava Accademia Regazzi, dal nome del proprietario della scuola, il fratello della signora. Vedendo che io disegnavo sempre, la signora un giorno mi disse: "Mio fratello ha una scuola, gli parlo e vediamo un po'". Infatti, andai da questo insegnante, gli portai qualche disegno e lui, dopo averli visti, disse: "Secondo me, ti conviene prendere la strada dell'istruzione artistica".
Quindi, un consiglio.
Sì, e siccome conosceva la mia situazione familiare — che non avevo denari e così via — mi prese gratuitamente nella scuola.
Era una scuola privata?
Privata. Pagavano tutti. Lui preparava sia per l'ammissione al liceo sia per la maturità. Mi ha preparato prima per l'ammissione al liceo, che poi ho fatto.
Liceo artistico.
L'ho frequentato per un anno...
E intanto doveva lavorare...
Sì. L'anno successivo sono passato alla Scuola d'arte, perché mi sembrava che potesse avere sbocchi lavorativi.
O perché era più impegnativo il liceo?
No, no.
La Scuola d'arte aveva lo stesso valore?
Sì, ma era più specifica per un'attività lavorativa. La mia idea era quella della grafica pubblicitaria. In quel momento, m'interessava, tanto che andavo in uno studio di grafici dove facevo dei lavoretti.
Questi non erano più lavori estemporanei, come quelli alla Gondrand, oppure continuava a fare gli uni e gli altri?
Gli uni e gli altri. Alla Gondrand sono rimasto per un periodo, poi ho lavorato con questi grafici.
Quindi, non andava a scuola.
Facevo le due cose. Di pomeriggio, magari andavo a fare questi lavoretti.
Era uno studio grafico importante?
Abbastanza importante, nel senso che c'erano due soci...
Ha avuto un avvenire questo studio grafico?
Uno dei due faceva i disegni per "Grand Hotel", l'altro seguiva di più la grafica pubblicitaria vera e propria. Poi, lo studio, l'hanno chiuso, un socio è andato a Roma, l'altro a Milano.
Quanto è durato il suo lavoro, lì?
Un po' meno di un anno.
Siamo nel cinquanta.
Cinquanta, cinquantuno, quegli anni. A quel punto, ho deciso che dovevo fare una scelta, e la scelta è stata la pittura. Ho ricominciato a frequentare la scuola con una certa regolarità, facevo già quadri, avevo incominciato a esporre...
Lei ha incominciato senza maestro?
Sì.
Per il fatto che era in grado di disegnare.
Sì.
Il disegno, per Lei, è stato la base.
Sì.
Anche senza le regole di quell'insegnante della prima media...
Sì. L'unico insegnante che io riconosca è Regazzi. Era molto bravo come disegnatore e come acquarellista. È lui che mi ha insegnato l'uso dell'acquarello, della matita, del disegno.
È stato il primo maestro. A un certo punto, Lei incomincia a esporre.
Sì, a diciotto anni, nel '52.
Dopo aver concluso il lavoro con lo studio grafico, decide di fare pittura e fa pittura. Conclude la scuola...
No, la scuola l'ho conclusa dopo. Ho fatto le cose simultaneamente, sempre per ragioni...
Per ragioni di vita.
Sì, perché dovevo lavorare. Facevo un po' la scuola e un po' il lavoro che mi consentiva di andare avanti. La pittura vera e propria, l'ho incominciata nel '52. In quell'anno, ho incominciato a dipingere quadri e a esporre in qualche piccola mostra locale, a Bologna e in provincia.
C'è stato un nuovo maestro?
No, il nuovo maestro è arrivato successivamente, quando già avevo incominciato a esporre. Mi ero iscritto all'Accademia di Belle Arti...
Ha concluso la Scuola d'arte nel '53...
La Scuola d'arte non l'ho conclusa, l'ho lasciata nel '53. Mentre il liceo l'ho sospeso, poi l'ho ripreso. Ho dato l'esame di maturità nel '56 da privatista, quando già ero attivo come pittore. All'Accademia mi ero già iscritto nel '55.
Ci si poteva iscrivere senza avere fatto il liceo?
Allora, bastava un esame di ammissione.
Si è iscritto all'Accademia, ha concluso il liceo nel '56, ha portato a termine l'Accademia?
Sì, nel '59. Non mi sarei iscritto all'Accademia, se non che a Bologna c'era un'istituzione, il Collegio Venturoli, che assegnava ai giovani artisti spazi per dipingere e una borsa di studio.
È un collegio pubblico o privato?
Un collegio privato che assegnava, a periodi, borse di studio, e metteva a disposizione di giovani artisti, iscritti all'Accademia di Belle Arti che fossero nati a Bologna, un atelier e un mensile. Avendo saputo questo, mi sono iscritto all'Accademia e, l'anno successivo, ho fatto domanda per la borsa di studio, che naturalmente sono riuscito a ottenere. Ho avuto uno studio grande e bellissimo, che rimpiangerò tutta la vita, per cinque anni, fino al 1961, quando sono tornato da Parigi e ho dovuto lasciarlo. E avevo anche un mensile, che mi consentiva qualche piccola spesa: le tele, i colori... Mi sono iscritto all'Accademia soltanto per questo motivo. Lì, ho incontrato Virgilio Guidi, che è stato il mio maestro non solo per la pittura vera e propria, ma è stato maestro di vita, nel senso più ampio.
Era una persona saggia?
Sì, in questo senso.
Le ha dato consigli?
Sì, mi ha dato consigli, mi è stato molto vicino.
Lei è rimasto in contatto con Regazzi?
Da Regazzi ho appreso la tecnica, mentre Guidi mi ha mostrato come vive un artista.
Le relazioni, i critici, le gallerie...
Sì. A Guidi sono molto grato, perché con me ha avuto un rapporto quasi paterno. All'Accademia di Belle Arti eravamo centocinquanta ragazzi e io andavo a giocare a carte o a mangiare con Guidi, il più delle volte. Non era una cosa che lui facesse con tutti: con me, aveva un atteggiamento un po' particolare.
Perché riconosceva che Lei era bravo o perché...
Probabilmente, sì. Sono diventato amico di sua figlia, insomma, c'era un rapporto quasi di amicizia, nonostante io lo abbia sempre chiamato "maestro". Ci siamo frequentati molto. Guidi, che era romano, abitava a Venezia, io ci andavo spesso, in quel periodo. E poi, queste cose si sono concretate nella presentazione della mia prima mostra personale, che si è tenuta a Venezia, nel '56, proprio grazie a lui. Comunque, sono convinto che gli anni trascorsi nelle scuole non hanno avuto quasi nessuna importanza nel mio lavoro e nelle mie scelte. Io sono sempre stato insofferente nei confronti degli insegnanti che mi sono capitati. Tutta la mia preparazione, praticamente, si è svolta al di fuori delle scuole.
Con Suo papà non c'era nessun conflitto?
No.
Dice di essere stato insofferente, ma non verso Regazzi e non verso Guidi.
Nei confronti di queste due persone, no.
Non era insofferente verso tutti.
La mia insofferenza era nei confronti dell'istituzione scuola, non tanto di quelle poche persone, nel caso specifico due, con cui ho avuto rapporti buoni. Per esempio, uno degli insegnanti con cui ci sono stati contrasti abbastanza ruvidi aveva una preparazione ottocentesca; a suo dire, gli impressionisti erano troppo all'avanguardia e noi dovevamo guardarci da loro!
Dove insegnava?
Alla Scuola d'arte. Era un pittore abbastanza noto, si chiamava Arnaldo Gentili. Sosteneva che gli impressionisti non dovevano essere guardati perché erano troppo all'avanguardia. Per un giovane che si trovava nella necessità di fare cose nuove i contrasti nascevano naturalmente. Io, poi, ho fatto le mie scoperte: a Bologna c'era la Biblioteca americana, che io frequentavo, c'erano molte riviste anche d'arte, e io lì ho scoperto gli artisti contemporanei. Lì ho scoperto Pollock, Miró, Picasso...
E Marc Rothko?
No, anche perché in quegli anni Rothko non faceva ancora le cose che mi hanno interessato successivamente. E così, ho cominciato a sperimentare le cose che vedevo riprodotte.
Alla Biblioteca dell'Usis.
Dal '52, per un paio di anni, ho frequentato questa biblioteca, finché l'hanno chiusa. Naturalmente, erano tutti testi in inglese, lingua che io non conoscevo, però vedevo le immagini. Alcune cose, poi, erano tradotte; per esempio T. S. Eliot l'ho scoperto lì, in un libro che aveva la traduzione e il testo a fronte. In quegli anni, ho letto molti romanzi, molti racconti, ho avuto curiosità.
Quali?
Per esempio, ho letto tutta la letteratura americana contemporanea attraverso Pavese. Mi piaceva molto la letteratura francese dell'Ottocento, che ho letto quasi tutta.
In italiano?
Sì.
Lei leggeva in italiano, perché non aveva avuto l'occasione di studiare le lingue?
No, nelle scuole artistiche non s'insegnavano le lingue. Sono andato a Parigi, per la prima volta, nel '54. E sono rimasto per un mese, un mese e mezzo. Ero da solo, completamente.
Quale fu l'occasione per andare a Parigi?
Fu una mia idea, per vedere i musei. Ero da solo, completamente, e così sono stato costretto a imparare qualche parola. C'erano mostre abbastanza importanti, per esempio ricordo una mostra di geometrici al Musée de la Ville. E, naturalmente, ho visitato il Louvre, sono stato dentro il museo tre o quattro giorni, ho visto praticamente tutto. Sono tornato a Parigi nel '56, dopo essere stato a Venezia. Con la borsa di studio del Collegio Venturoli, organizzarono una gita premio e ci mandarono una settimana a Parigi. In quell'occasione, visitai le gallerie private. Ebbi modo di vedere cose che erano una conferma degli interessi del mio lavoro in quel momento. Per esempio, ricordo Georges Mathieu, ricordo Jean Fautrier, visti in quel periodo. C'era la galleria Stadler che lavorava molto su questi pittori. Stadler, il finanziatore della galleria, era collegato a Michel Tapié, il critico che ha scritto il testo fondamentale sull'arte informale, Art Autre, nel 1952 Quella è stata la mia seconda volta a Parigi. L'ambiente mi piaceva. Così ho incominciato a pensare che si poteva fare qualche mostra e mi sono messo in contatto con alcune gallerie. La prima a essere disponibile a esporre le mie opere è stata la galleria Palmés, nel '57. In quella occasione...
Guidi non Le è stato utile per questa mostra?
No, Guidi ha sempre avuto un mercato limitato all'Italia, anche se è stato portato all'estero, qualche volta. Lì, ho conosciuto Jean Bouret, che lavorava come critico per il quotidiano "Paris Jour", di proprietà di Del Duca. Lui mi disse che aveva visto cose mie a Torino, nella galleria di Luigi Carluccio, critico della "Stampa", e che gli erano piaciute. Venne, appunto, alla mostra e fece la recensione sul giornale. Mi fermai pochi giorni, in quell'occasione, e non ebbi modo di fare molti incontri. In seguito, mi misi in contatto con una signora, un'ingegnere nucleare, proprietaria di una galleria che si chiamava l'Anti-poète, che faceva un lavoro abbastanza interessante. La sua galleria non era semplicemente un luogo di mostre, era una specie di salotto, dove passavano molte persone. Per esempio, mi presentò l'ultima compagna di Rilke, una signora molto anziana che frequentava la galleria. Passava molta gente di lì; Carlo Sergio Signori, uno scultore italiano che abitava a Parigi dagli anni dell'antifascismo, da quando dovette lasciare l'Italia, io l'ho conosciuto lì.
Signori è stato importante per lei?
No, fu una conoscenza estemporanea. A Parigi non ho avuto incontri importanti, nessuno che abbia determinato qualcosa per me. L'anno dopo, ho vinto la borsa di studio e ci sono tornato. A Parigi, l'unico contatto che ho avuto — a parte Gianni Bertini, un artista italiano con cui ho avuto un'ottima frequentazione — è stato con una galleria che aveva un'attività abbastanza interessante, la stessa dove Christo ha fatto la prima mostra.
Christo, ha partecipato al nostro congresso di New York nell'81.
La prima mostra collettiva, Christo la fece, appunto, in questa piccola galleria di rue de Vaugirard, gestita dalla madre di un critico d'arte di nome Jean-Jacques Leveque, con cui abbiamo avuto un ottimo rapporto. M'invitava a casa sua qualche volta, la domenica pomeriggio, per piccoli ricevimenti. Lì, ho incontrato artisti e critici. Era il 1961.
Quindi, Lei è andato a Parigi con una borsa di studio del governo francese e è rimasto dal '60 al '62.
Ero alla ricerca continua di una galleria, di un mercante. Nel '60, ho fatto una mostra a Milano, in una galleria di Brera che si chiamava Il Prisma. Il titolare della galleria mi disse: "Perché non ti trasferisci a Milano?", ma io non ero tanto propenso a vivere a Milano, perché avevo sempre l'idea di andare a Parigi, una città che, secondo me, poteva offrirmi di più. Invece, mi sono sbagliato.
Quindi, con Guidi il rapporto è...
Con Guidi il rapporto è continuato, anche se, naturalmente, senza intrecci.
Sempre come maestro di vita. Non ha avuto altri maestri, dopo Guidi?
No.
Da Venezia a Parigi, dal '52 al '60, in Italia cosa avviene?
Avviene che io chiedo a un americano, che aveva la galleria Schneider, a Roma, in rampa Mignanelli, proprio sotto la casa di De Chirico, di fare una mostra. Lo incontro a Venezia, lui mi dice che è d'accordo. La mostra, siamo all'inizio del 1957, va benino, non benissimo, però è molto visitata. Per esempio, ritrovo Guttuso, che avevo conosciuto a Venezia, alla Biennale. A Venezia, l'anno prima, c'erano stati alcuni bolognesi, naturalmente. C'era Francesco Arcangeli, che allora era il critico ufficiale dell'"Europeo", lui mi presentò Roberto Longhi, commissario alla Biennale. Roberto Longhi mi fece i complimenti, ma così, in maniera un po' generica, mentre Guttuso, che era con lui, fu molto caloroso, mi disse che si era battuto per il mio lavoro, che gli interessava molto. Mi fece tanti complimenti, insomma. L'anno dopo, a Roma, venne per vedere la mia mostra alla galleria Schneider e, di nuovo, mi fece tanti complimenti. Venne anche Palma Bucarelli, che era già direttrice della Galleria d'arte moderna di Roma, ma non contava nulla...
E non fece i complimenti.
Mi fece i complimenti, ma erano un po' generici.
Differentemente da Guttuso.
Sì, differentemente da Guttuso. In quell'anno, il '57, ci fu una specie d'invasione di padani a Roma. Ricordo che un critico giornalista, Claudio Savonuzzi, che scriveva sull'"Illustrazione italiana" e sul "Resto del Carlino" e che poi sarebbe diventato corrispondente per la Rai da Parigi — un amico, fra l'altro, con cui eravamo stati insieme a Parigi — scrisse un articolo dal titolo L'Adda ha sconfitto il mare. L'Adda (il lavoro dei padani, di Ennio Morlotti, di questa gente, che veniva definito neonaturalismo) avrebbe sconfitto il mare di Antibes e il mare di Picasso. E ci furono diverse mostre, a Roma, di artisti emiliani e lombardi. Per esempio, la galleria La Salita Liverani, fece una mostra di Sergio Vacchi quasi contemporaneamente alla mia. A Palma Bucarelli queste cose non piacevano molto, perché lei era per un tipo di pittura molto più rigida, più geometrica. Dopo la mostra a Roma, entrai in contatto con la galleria Numero di Firenze e lì esposi nel gennaio del '58. Con la galleria Numero io ho lavorato dal '58 al '60; poi, quando sono andato a Parigi, abbiamo interrotto un po' i rapporti. In quei due, tre anni abbiamo fatto molte mostre collettive in giro per l'Italia e anche all'estero.
Come si chiamava la gallerista?
Fiamma Vigo. La sua era una famiglia toscana trasferita in Argentina e lei era rientrata a Firenze. Mi ha venduto molte cose, mi ha messo in contatto con molti collezionisti della zona, abbiamo fatto un discreto lavoro.
Quindi, fino al '58 Lei ha fatto mostre a Parigi, Venezia, Roma, Bologna.
A Bologna, no. La prima mostra a Bologna l'ho fatta nel '63.
Con la galleria Numero di Firenze ha partecipato a mostre collettive.
Con il Gruppo Numero. Eravamo un gruppo di artisti, e Fiamma Vigo aveva contatti in Europa: in Spagna, in Svizzera, in Germania, in Francia.
E a New York?
A New York la mostra è stata organizzata nel 1970 dalla galleria Il Segnapassi di Pesaro.
Con cui Lei ha lavorato in quali anni?
Dal '65 al '71. Poi, la collaborazione si è interrotta; il motivo principale era che il proprietario e gestore, medico psichiatra, aveva molti impegni professionali, lavorava all'ospedale e non ce la faceva...
Come si chiamava?
Renato Cocchi. Era conosciuto anche come medico: sembra che abbia trovato una cura per disintossicare i tossicodipendenti. È una persona molto vivace e attiva, ha partecipato anche a alcune trasmissioni radiofoniche.
Allora le gallerie importanti per Lei sono state Numero di Firenze e Il Segnapassi di Pesaro.
Sì.
Perché si chiamava Il Segnapassi?
Sarebbe la traduzione italiana di pace-maker! La galleria esiste ancora, però ha cambiato gestione: è stata rilevata da una signora, una specie di socio finanziatore, la quale ha cambiato completamente l'attività.
Insomma, a Parigi fra il '60 e il '62 Lei non trova un interlocutore vero e proprio, né un maestro con cui avvenga una collaborazione, cosa difficile se non impossibile, né un gallerista né un mercante. Sicché, terminata la borsa di studio...
Terminata la borsa di studio, mi sono fermato un altro anno, perché avendo svolto un'attività di pubblicità a Bologna, alla Buton, avevo...
Quindi, l'attività di grafica pubblicitaria è proseguita di tanto in tanto?
Sì, ho trascorso circa un anno e mezzo alla Buton, prima di andare in Francia.
E poi?
Rientrato da Parigi, c'è stato l'insegnamento.
Ma a Parigi ha incontrato qualche maestro, ha visto qualche opera, qualche mostra importante tra il '60 e il '62?
Per esempio, ho visto la prima mostra europea di Robert Rauschenberg, che nel 1964 avrebbe vinto la Biennale di Venezia. Quello fu l'anno dell'occupazione americana della Biennale.
In che senso "occupazione"?
Era diventata la Biennale della pop art.
Per un anno. Ma prima di arrivare a occupare la Biennale, in America la pop art ha faticato per affermarsi.
Sì. Quella mostra era stata l'avvenimento più importante, a Parigi, in quegli anni. Poi, ho frequentato molti artisti, per esempio, due amici artisti greci. Uno si chiamava Nikos Kessanlis. Eravamo diventati amici in Italia, perché anche lui faceva parte del gruppo Numero; aveva un contratto con Gaspare Del Corso, il gallerista di Roma che ha lanciato Burri. Poi, si era trasferito a Parigi dove lo ritrovai, l'anno dopo. Aveva comprato un atelier di falegnameria e lo aveva ristrutturato. Tenne per sé il primo piano e il piano terra lo affittò a me. Un altro greco con cui eravamo diventati amici, che abitava a Roma negli anni cinquanta e che poi si trasferì a Parigi, si chiamava Vlassis Caniaris, un ottimo artista. Entrambi li ho ritrovati alla Biennale di Venezia, otto anni fa, nel padiglione greco: erano i due artisti che rappresentavano la Grecia.
Sono tornati in Grecia?
Sì. Uno insegna all'Accademia, l'altro alla Facoltà di architettura.
Con loro c'era amicizia, collaborazione, scambio di idee.
Una consuetudine quasi quotidiana. Poi, ho incontrato Gianni Bertini, anche con lui ci vedevamo molto, a Parigi. Aveva un atelier da cui passavano tutti gli italiani. Per esempio, Enrico Baj.
Roberto Sebastian Matta non c'era ancora?
No. O forse c'era, ma non l'ho conosciuto. Tanti artisti, tanti incontri passeggeri. Ricordo che, una sera, ho conosciuto Tristan Tzara, al bar, con altri due o tre artisti, eravamo insieme, allo stesso tavolo...
Lei diceva che si trovava a Parigi, nel '62, al tavolo dove Pierre Restany... ...
stava cercando di convincere César...
... a partecipare al gruppo del Nouveau réalisme. Restany aveva fatto questo gruppo per reagire alla pop art?
Probabilmente sì, in effetti era la versione europea della pop art.
E Arman era già lì?
Sì, c'erano Arman, Yves Klein, Niki Saint-Phalle...
Mentre Mimmo Rotella è arrivato dopo.
Io l'ho incontrato in quel periodo.
Nel '62, a Parigi.
Incontri casuali. Ricordo che ci siamo incontrati per strada, con altri artisti, amici comuni, e mi disse dove abitava...
Abitava già a Parigi?
No, stava in albergo. Avevo incontrato anche un critico, di cui non ricordo il nome, che mi aveva presentato altri artisti, per esempio Alberto Giacometti.
Giacometti, Lei lo ha incontrato una sola volta?
L'ho incontrato una sola volta.
Che impressione Le ha fatto?
Un'impressione abbastanza strana. Mi disse che aveva un piccolissimo studio, con il pavimento in terra battuta... insomma, mi fece una strana impressione che un artista con un certo successo potesse lavorare in una specie di scantinato. C'era qualcosa che non corrispondeva, qualcosa di strano.
Strano in che senso? Lui era famoso...
Lui era famoso e lavorava in una specie di scantinato, mentre avrebbe potuto avere uno studio!
Siamo sicuri che avrebbe potuto averlo o era...
Siamo sicuri.
Era il suo modo, no?
Sì. Era una cosa abbastanza strana.
Siccome aveva cominciato in uno scantinato preferiva proseguire in uno scantinato.
Diceva che si trovava bene in quel piccolo...
Lo ha incontrato lì, in quello studio?
No, me lo ha descritto lui. A Parigi, ero sempre alla ricerca di uno studio, io come altri; purtroppo, si trovavano locali, ma uno studio vero e proprio, no. Alberto Giacometti, invece, mi disse: "Lo studio non è una cosa importante", e aggiunse che lui lavorava in quattro metri quadrati, con il pavimento in terra battuta.
Non è strano. Ho incontrato artisti, in Russia, che hanno lavorato in condizioni impossibili, senza uno studio, negli scantinati, con solo la luce elettrica.
Anche lo scultore Quinto Ghermandi, a Bologna, a un certo punto non ha più avuto lo studio. Andava a Verona, in fonderia, per fare le sculture e dello studio non aveva più bisogno.
Quando era già famoso.
Sì.
Stiamo parlando di artisti che, per condizioni di vita particolari, per motivi politici o economici, non avevano la possibilità di uno studio; non diciamo di chi era già affermato e poteva permettersi di lavorare nella fonderia.
Si chiamava Dufren quel critico, mi ha presentato anche alcuni artisti del Nouveau réalisme. Con lui, c'è stata una frequentazione, più per amicizia che per una collaborazione effettiva.
E con Restany?
Andai a trovarlo, gli portai delle fotografie, ma lui non era più interessato a questo tipo di cose perché stava già pensando al Nouveau réalisme. A quel tempo, la mia pittura era non figurativa, quindi a lui non interessava più di tanto.
Poi, Lei torna in Italia nel '62. Lascia la moglie a Parigi...
Sì, la lascio a Parigi.
Si era sposato prima di andare a Parigi?
Sì, nel '55. Nel '61 mia moglie è venuta a Parigi.
Aveva lasciato il lavoro a Bologna, prima di trasferirsi a Parigi. Così, nel '62, Sua moglie rimane a Parigi perché lì aveva un lavoro.
Aveva trovato un lavoro come vetrinista da Christophe. In autunno, quando io sono tornato a Bologna, lei non aveva nessuna attività da svolgere lì, mentre a Parigi aveva questo lavoro. Così, si è fermata. Io, invece, ho cercato l'insegnamento.
Arrivato a Bologna, ha fatto il giro delle sette chiese...
Sono andato a Milano, a cercare i galleristi che conoscevo. Cardazzo, per esempio. Mi disse: "Sì, sono cose interessanti, però questo è un brutto momento...". Sono andato a trovare altri amici, a Torino, che mi avevano incoraggiato negli anni precedenti. Niente.
E Guidi?
Guidi non poteva fare niente. Io andai a trovarlo, però... Avrebbe potuto allungarmi qualche biglietto da diecimila, non di più. Non era quello che mi serviva. Infine, grazie a un amico, trovai lavoro come insegnante, a Forlì.
Era un modo per dire: sono sicuro per un certo aspetto, e intanto proseguo il mio lavoro.
Sì, è stato un problema di vera sopravvivenza fisica, in quel momento, perché non avevo nessun tipo di entrata...
È stato il momento più critico della sua vita?
Sì, perché a Bologna non c'era nessuna possibilità. C'era una galleria, con cui avrei fatto due mostre personali negli anni seguenti ('65 e '67), la galleria Il Cancello di Giovanni Ciangottini, un artista bolognese morto pochi mesi fa. Con Ciangottini avevo fatto molte mostre collettive, negli anni cinquanta. Lui era umbro, si era trasferito a Bologna e, lì, aveva aperto la prima galleria d'arte, negli anni quaranta, da cui sono passati tutti gli artisti bolognesi. Aveva questo spazio, faceva esporre, però non aveva denaro, era semplicemente un artista che metteva a disposizione di altri artisti la sua galleria...
Non era un mercante.
No. Altre gallerie, a Bologna, in quel momento, che potessero interessarsi al mio lavoro non ce n'erano, quindi...
E a Forlì c'era qualche galleria che si è interessata a Lei?
No, a Forlì c'era soltanto una galleria che faceva mostre di fiori, cose così. A Forlì io sono capitato per una serie di circostanze: un mio compagno di Accademia, un artista di Mantova, insegnava in quella città. Si liberò un posto d'insegnante, lui mi avvertì e io ci andai. Mi diedero questo piccolo insegnamento, erano poche ore, allora.
Cosa insegnava?
Metalli, cioè orificeria e smalti su rame. Io facevo preparare ai ragazzi i disegni, che, poi, venivano realizzati in laboratorio.
In pratica, insegnava disegno.
Sì. Ero anche direttore dei due laboratori, però lì c'erano anche altri insegnanti. Ho insegnato a Forlì fino al 1969, allora ero vicedirettore. Al momento della contestazione, il direttore entrò in crisi e mi lasciò la scuola, che io ho tenuto per un anno, finché il Ministero ha mandato un direttore di ruolo, di cui io sono subito diventato collaboratore, naturalmente. Ho continuato a Forlì fino al 1974, poi ho chiesto il trasferimento e sono andato a insegnare al liceo artistico di Bologna.
Perché chiese il trasferimento?
Per avvicinarmi un po' a Bologna. Al liceo artistico rimango un anno, poi mi nominano di ruolo a Arezzo e a Forlì. Io scelgo, naturalmente, Forlì, dove ritorno come insegnante di ruolo. Lì, mi fermo fino al 1979, quando vado a Modena a fare il preside — nel frattempo cambia la legge, e i direttori non si chiamano più direttori ma presidi. E, dal '79 al '96, faccio il preside a Modena.
E poi?
Poi, lascio.
È dal '96 che non insegna.
Che non sono più nella scuola.
Dal '62 al '96 passano trentaquattro anni. In questo periodo, Lei fa meno mostre di quelle che aveva fatto tra il '54 e il '62.
No, fino al '73 continuo a fare mostre. Negli anni settanta, arriva il concettuale, c'è un po' di sconquasso nelle gallerie, sicché io ho un momento di pausa. Poi arriva Modena, e con Modena il tempo è molto occupato.
Vive a Modena dal '79 al '96, diciassette anni, durante i quali è preside. Diciassette anni in cui è troppo assorbito dal lavoro d'insegnamento...
Sì. Riesco a fare qualche piccola mostra in località a portata di mano.
E lavora poco.
Sì, lavoro poco. Faccio una grande mostra a Carpi, nel Castello dei Pio Sala Cervi, una mostra enorme.
Quante opere?
Un centinaio, ma di grandi dimensioni.
E queste opere dove sono adesso?
Una parte sono qui.
E le altre?
Qualcosa è andato un po' in giro, qualcosa ha tenuto l'amministrazione.
Alcune sono rimaste nel Museo di Carpi, naturalmente.
Sì. Gli anni in cui ho insegnato a Forlì non mi hanno condizionato nel lavoro, anzi, in quegli anni ho lavorato moltissimo. Quindi, negli anni cinquanta e sessanta... ...
e nei primi anni settanta...
... Lei lavora molto. Globalmente, da allora a oggi, fa circa duemilacinquecento opere.
Tra opere su carta e su tela, senz'altro.
La produzione diminuisce molto quando Lei è preside. Ma perché, si sente soddisfatto?
No, io ho sempre tenuto molto separate le due cose.
Perché c'è un critico che dice: Alfonso Frasnedi è preside, nel suo caso non vale la regola che chi non sa fare insegna: lui sa fare e insegna. Non Le pare un destino strano il suo? Lei, che si trova a non essere mai regolamentare, che segue un suo itinerario, frequenta la scuola in maniera irregolare, fa gli esami senza frequentare i corsi, s'iscrive all'Accademia per una ragione estranea all'Accademia, per ironia della sorte il suo destino è quello d'insegnare e, addirittura, di essere il responsabile, per diciassette anni, di un liceo artistico a Modena. Sembra strano, no?
Sì, è una cosa abbastanza curiosa.
Lei si è sentito sempre rivoluzionario?
Rivoluzionario, mai.
Non nella politica, nell'arte.
No, rivoluzionario vero e proprio io non mi sono mai sentito; mi sono sentito di fare un lavoro che fosse sull'orlo del momento, né un po' più indietro né un po' troppo avanti.
Sull'orlo. Ma non era né dell'epoca né...
In qualche momento, mi è stato detto che il mio lavoro era troppo avanti, ma non lo era. Secondo me, chi diceva così non era abbastanza aggiornato, nel senso di essere "al giorno".
Ma non era indietro?
No, indietro no.
Lei dice che la pop art aveva catalizzato gli interessi negli anni sessanta, poi il concettuale negli anni settanta, il postmoderno e la transavanguardia negli anni ottanta. Negli anni novanta, ormai, c'è la pittura New Age, facile facile, tutta decoro.
Rispetto a queste cose io rimango un po' defilato; e è chiaro che potrei essere considerato sorpassato.
Rispetto alla pop art?
No, perché qualcosa ho fatto in quel periodo. Per il concettuale, credo di aver fatto una pittura dove ci fossero concezioni, all'interno.
C'era la logica.
Sì, tuttavia non era pittura concettuale.
Anche lì era sull'orlo, diciamo.
Sì. In qualche momento qualcuno ha definito "concettuali" le nuvolette che io facevo, perché lo sono, però non è arte concettuale.
Negli anni cinquanta c'è il cosiddetto neonaturalismo. Non è il caso di Guidi.
No, Guidi si è sempre definito spaziale; insieme a Fontana, lui ha firmato il Manifesto tecnico dello spazialismo. Guidi è uno spazialista, dagli anni cinquanta in poi; prima, negli anni venti, faceva parte della scuola romana.
Era una specie di avanguardia?
Sì. Al neonaturalismo ci sono passato abbastanza vicino soltanto perché i teorici erano Arcangeli e, a Milano, Testori. Era una situazione padana, ci si trovava un pochino dentro tutti quanti. Io ho avuto rapporti con Arcangeli, quindi, in qualche modo, ne ho risentito. Però, con Arcangeli c'è sempre stato un chiarimento, nel senso che lui ha sempre sostenuto situazioni di passionalità spinta e esasperata, mentre io ho sempre sostenuto che la passionalità dev'essere regolata.
Non dev'esserci.
C'è stato questo contrasto. Ricordo una delle ultime discussioni piacevoli, non litigiose, che ho avuto con Arcangeli a proposito del jazz. Lui sosteneva il jazz di New Orleans, tutto improvvisazione, mentre io preferivo un jazz più moderno, meno improvvisato. Il mio neonaturalismo è di questo genere.
Non è naturalismo.
Direi di no.
E l'informale? Che c'entra Lei con l'informale?
Non c'è informale nella mia opera.
C'è una splendida forma, una magnifica forma!
Che è sempre nuova e inventata e non fa riferimento a nessuna forma precedente. Ecco, il mio informale può essere riassunto soltanto in questa definizione: non fa riferimento a forme preesistenti. È questa l'unica mia parentela. Del resto, anche le mie opere pop art non sono come quelle dei pop artisti americani.
No, e nemmeno dei pop artisti europei.
Esatto. Le mie intenzioni erano un po' diverse. Non so se si riesca a leggere, però la mia idea era che ci fossero componenti di carattere sociale che entrassero nel lavoro di quegli anni.
Quindi, l'ironia.
Sì.
L'ironia è una costante nella Sua opera?
Sì. L'ironia e il distacco.
La non rappresentazione.
L'ho anche scritto: le immagini che ho utilizzato negli anni sessanta e nei primi anni settanta, io le combinavo e le ricombinavo per togliere a esse il significato riferito all'immagine, perché avessero un significato semplicemente combinatorio. In questo senso, ho usato l'ironia nei confronti dell'immagine. Ho anche messo in ridicolo delle immagini, senza arrivare al ridicolo vero e proprio, perché credo che l'ironia si fermi un po' prima del ridicolo. Anche quando io faccio un lavoro che non fa riferimento a immagini, che non combina immagini, cerco di giocare sempre con i colori o la composizione o le zone di colore.
Lei insiste molto sulla materia del colore.
Sì, perché credo che la pittura debba essere fatta con il colore.
Però c'è il colore, e poi ci sono i colori, i colori come suoni, dice Lei. Quindi, arte acustica.
Come vibrano negli occhi così i colori devono vibrare nelle orecchie, anche se non si sentono i suoni.
La pittura deve vibrare nelle orecchie?
Sì. La pittura è muta se si vede con gli occhi, invece deve risuonare.
È muta rispetto alla visione del mondo, alle cose viste. Rispetto all'occhio è muta, ma non lo è rispetto all'orecchio.
Sì, deve risuonare dentro, deve risuonare nell'orecchio. La parola "risuonare" forse non è la più precisa.
C'è il muro del suono. E la luce?
Fa parte di questa vibrazione colorata, che entra più nell'orecchio che nell'occhio.
Questa è la Sua idea della pittura.
Questa è la mia idea. La mia idea è anche che all'interno delle cose ci debbano essere due elementi contrastanti, che creino un dibattito tra loro, il colore e la materia, la superficie piana e la materia...
Magari, non è mai piana la superficie.
Devono esserci questi elementi contrastanti all'interno...
Simmetria e asimmetria...
Il colore freddo e il colore caldo, le linee spezzate e le linee curve.
La linea vera e propria non c'è...
No, la linea vera e propria non c'è mai.
E nemmeno il cerchio.
Nemmeno il cerchio. Io non parto mai da un'idea di tipo lineare, ma sempre da un'idea colorata, da un'immagine che è un'immagine di colore.
Lei parte da un'idea del colore. E, quindi, la condizione è il colore, anche la condizione dell'idea, la condizione dell'itinerario. La Sua idea della pittura non si è mai modificata...
No, la mia idea della pittura è sempre rimasta la stessa, anche se per renderla esplicita io ho utilizzato diversi modi e diverse immagini. Nei tempi, ho utilizzato immagini differenti. Può sembrare che io abbia un atteggiamento diverso, mentre il mio atteggiamento nei confronti della pittura rimane sempre lo stesso...
Ha utilizzato un differente materiale: materiale del neonaturalismo, materiale dell'informale, materiale della pop art, materiale del concettuale.
Sì.
Leonardo da Vinci dice che ci sono alcuni pittori che dipingono, magari anche in modo facile, a seconda delle esigenze e delle risposte che devono dare al mercato, e ci sono pittori che pensano la pittura.
Se avessi seguito le richieste del mercato... ...
avrebbe dipinto, e basta.
... avrei dipinto sempre le stesse cose. Il lavoro neonaturalista che ho fatto a metà degli anni cinquanta me lo chiedono tuttora. Se io volessi, potrei rifare quei quadri e avrei un mercato. Anche per le cose informali ho richieste continue, se avessi continuato a farle. Ma non avrebbe nessun senso rifare le stesse cose di quarant'anni fa! Poi, per arrivare a quelle immagini che io ho tratto da opere di artisti del passato, le riletture che ho fatto mettendo in contatto certe mie immagini precedenti con le immagini tratte dalla lettura del Giorgione, per esempio, o di Goya o di altri artisti...
Quali sono gli artisti del passato che Lei ha riletto?
Goya, Giorgione, Manet, Velázquez, per esempio. Sopra tutto Giorgione, perché in questo artista c'è un tipo di immagine... La tempesta?
La tempesta di Giorgione è un'immagine muta, è un'immagine che non racconta: rimane e vive per una serie di vibrazioni che nascono dall'opera senza diventare un significato. Questa è una mia rilettura.
Quindi, non c'è una visione del mondo nella Tempesta.
Non c'è neppure nei Tre filosofi di Giorgione, non c'è nella Colazione sull'erba di Manet. Di Velázquez ho ripreso Las meniñas, un'opera su cui ha lavorato molto Picasso, quindi non mi sembrava il caso d'insistere. Di queste riletture io ne ho fatte tante...
Non tantissime.
Perché tante me ne sono andate via. È un lavoro che ho fatto molto perché mi è stato molto richiesto, e che ho interrotto proprio perché era troppo richiesto, tornando a Leonardo. Quando una cosa piace troppo non credo che si debba proseguire a farla, perché significa che il suo ciclo l'ha concluso, è già arrivata a parlare a troppa gente, sicché diventa superfluo indugiare nello stesso discorso.
Le riletture, di quali anni sono?
Dal '71 al '73. Dopo, sono tornato a utilizzare gli elementi costitutivi della pittura. La mia attenzione si è rivolta sopra tutto alle superfici, alla materia, al colore — al colore semplicemente, non in rapporto a altri colori. È un periodo abbastanza breve, una specie di riazzeramento per ricominciare. E poi, ricomincio a scoprire i colori, ricomincio a scoprire le forme, il quadrato che ritorna.
Il quadrato.
Il quadrato è come la finestra in Matisse. Per lui, la finestra è uno spazio che si apre, uno spazio dentro e uno fuori. Io, invece, lo metto al centro del quadro, però non è uno spazio che si apre, è un dentro-fuori. Un dentro-fuori se stesso, non c'è il fuori, la finestra, e il dentro, l'interno. La finestra è un dentro-fuori, due spazi che si ripercuotono in se stessi, sempre per quella necessità di creare un dibattito all'interno dell'opera che non sia semplicemente un interno e un esterno.
Un dibattito.
Un dibattito, sì, che nasce da questa ambiguità. Negli anni settanta, fino all'inizio degli anni ottanta, quando questa specie di forma quadrata si dilata.
Malevic non ha nessuna implicazione per Lei, tra gli anni settanta e gli anni ottanta?
No, l'hanno più Matisse, più Albers, per questa forma del quadrato che io faccio in altro modo. Ho l'impressione che questo quadrato si sia dilatato fino a occupare quasi tutto lo spazio della superficie.
Ma non è quadrato! È una quadratura impossibile. È come la famosa quadratura del cerchio che Leonardo crede di avere risolto mentre, poi, di fatto, s'imbatte nel calcolo infinitesimale. La quadratura del cerchio è impossibile, e lui continua a fare quadratura del cerchio!
Infatti, a forza di fare il quadrato, sono arrivato a fare una linea d'orizzonte. Il quadrato è diventato talmente grande, che è rimasto soltanto uno dei quattro lati, e è diventato un orizzonte.
È una diagonale?
No, è un'orizzontale. Su quell'orizzontale ho lavorato una decina d'anni, praticamente per tutti gli anni ottanta.
Su quella linea che non è una linea.
Sì, è una separazione, non è una linea.
Lei dice che c'è la verticale e l'orizzontale. E che l'orizzontale è la separazione. La verticale, che lì non appare...
Appare negli ultimi anni, soltanto.
La verticale, comunque, è sottintesa.
Sì. Le verticali sono di tipo fisico, chiudono questo orizzonte.
La verticale lega, giunge, dà simmetria, in qualche modo è corpo; l'orizzontale, invece, separa, è asimmetrica, disgiunge, slega.
Sì, in questo senso.
Questo è il contrasto originario della sua pittura.
Da qui, il bene e il male.
Il bene e il male, il positivo e il negativo. Da qui, procede il dibattito. E l'itinerario stesso.
Certo.
Questo avviene negli anni ottanta, durante il cosiddetto postmoderno. Ci sono i riflussi, no?
Sì. Quel riflusso, io non lo risento. L'unico effetto che ha su di me questa situazione generale che c'è nell'aria è di ripiegarmi un po'. Rileggo, torno sulle mie cose; per esempio, riscopro intonazioni di fine Ottocento, inizio Novecento, intonazioni di certi artisti postimpressionisti, che diventano interessanti per me.
Quali artisti?
Per esempio, Pierre Bonnard, Edouard Vuillard, artisti che hanno lavorato insieme con Matisse.
E lo stesso Matisse.
E Matisse, sì. Però, come atmosfere colorate sopra tutto Vuillard e Bonnard, i pittori nabis, che fanno una pittura molto decadente, molto ripiegata su se stessa.
Decadente per modo di dire.
Sì, è la fine di un secolo e l'inizio di quello nuovo. E io riprendo queste cose, questo tipo d'intonazione, perché da qui si può ripartire di nuovo. Così come loro hanno dato termine all'Ottocento e iniziato il Novecento, in qualche modo, con questo tipo d'intonazione, io credo che si possa portare a termine quello che è accaduto prima, queste riletture, queste situazioni postmoderne, per incominciare qualcosa...
È solo un pretesto per Lei per fare le cose sempre lungo il Suo itinerario, in un'altra fase. Nell'83 c'era stata la mostra dell'informale, alla quale anche Lei ha partecipato.
Sì, a Bologna. Con qualche incomprensione. Non sapevo che tipo di mostra fosse e, quando sono venuti a scegliere le opere da esporre, hanno scelto le prime che sono capitate. È stata una scelta molto improvvisata. Alcune opere le hanno prese soltanto per la data. Avrei potuto esporre opere più importanti, anche come dimensioni.
E negli anni novanta?
Negli anni novanta ho fatto qualche mostra, continuando con la stessa intenzione, cioè lavorando sempre sul quadrato e sull'orizzonte. E poi, negli ultimissimi anni, un elemento verticale entra in questa orizzontalità che era diventata un po' esasperata, negli anni ottanta. Nelle ultime cose che ho fatto, ho avvertito la necessità d'inserire anche qualche elemento verticale.
Ma questa verticalità c'è sempre stata.
Sì, è diventata più evidente nelle ultime cose.
Lei dice, però, che l'evidenza non c'è mai nella sua pittura.
Io credo di no.
È stata abolita da Malevic, ma forse anche da Leonardo da Vinci.
Credo che questo sia di tutti gli artisti. Non è mai esplicita l'arte, non può esserlo, finirebbe di essere arte per diventare un'altra cosa.
E le sue letture su argomenti differenti dall'arte proseguono anche negli anni sessanta e settanta?
Molto meno.
Quindi, avvengono sopra tutto negli anni cinquanta.
Sopra tutto. Per esempio, il teatro mi ha interessato molto negli anni cinquanta, da allora credo di essere andato a teatro due o tre volte. Così come il cinema mi ha interessato moltissimo negli anni sessanta.
Pasolini?
No, Pasolini come scrittore, come saggista, ma non come cineasta. A Parigi, ho frequentato la Cinémathèque, vedevo tre film al giorno — non tutti i giorni — perché ero molto interessato alle immagini in movimento.
A quale cinema in particolare era interessato?
Al cinema muto, sopra tutto.
E Walt Disney L'ha mai interessata?
Non tanto. Negli anni in cui ho lavorato sul fumetto, preferivo il fumetto con figure umane, mentre Walt Disney rappresenta sopra tutto animali. No, a me non interessava quel tipo di rappresentazione.
Quella di Walt Disney è un'animazione, sono cartoni animati, mentre nel Suo caso non si tratta di animazione.
No, mi sono interessato solo delle immagini che vengono dal fumetto stampato.
Sì, dove è disegnata l'immagine umana e quello che dice. I fumetti dei ragazzi, più che i cartoni animati.
Sì, sopra tutto quelli americani che avevano, allora, una violenza di colori che il fumetto disegnato in Italia non aveva.
Erano fumetti a colori. Come li ha utilizzati, sempre in modo ironico?
Sì, utilizzando quei brani che, secondo me, diventavano un po' ironici. In qualche caso, riprendevo soltanto il disegno del fumetto che conteneva le parole senza mettere le parole, lasciandolo muto, prendevo brani, particolari, frammentandoli. Quindi, né astratto né figurativo.
Si può dire così.
Non è stato propriamente astratto, ma c'è stata sempre astrazione. E non è stato mai figurativo, anche se in certi casi è stata utilizzata anche la figura.
Non sempre, ma in taluni casi è stata utilizzata la figura.
Lei, in un testo di quest'anno dal titolo Le parole, lontano, racconta del volo e del battito d'ali.
È una cosa che mi ha abbastanza impressionato questo movimento che viene come rattrappito, quasi congelato in una cosa. Nel caso del volo diventa il volo, nel caso del lavoro diventa il lavoro. Nasce da un momento di agitazione, ma poi si distende sulla superficie. In certi momenti, il mio lavoro ha aspetti convulsi; però, questa specie di convulsione è sempre ordinata, è sempre pensata, è sempre ragionata, e nasce sempre da una struttura sotterranea.
Lei scrive: "Io vi parlo di ciò che non è, la risposta quindi la si troverà solo per esclusione".
Perché non vorrei mai che le mie cose fossero esplicite.
Non vorrebbe che fossero evidenti, che fossero la rappresentazione pura e semplice della vita?
Proprio così.
Che cosa c'entra la Sua vita nella Sua pittura?
Ma, direi che c'entra poco.
Non c'entra come autobiografia.
No, se non per alcuni momenti di pausa.
È un'altra vita quella della pittura, è un'altra vita. È un'altra la vita della pittura!
È una sua vita che cresce e procede su se stessa, non fa riferimento alla quotidianità.
Lei scrive ancora: "La notte è verde d'ombre. Il verde è la logica del naturale. Il nero è la follia irrazionale, è l'oscurità dell'inconosciuto. La pittura ha il sangue verde-nero. Oppure verde-rosso. Da visivo ad acustico".
Sì, sono sempre quei due elementi che devono comporsi e ricomporsi, mettersi in verticale e in orizzontale, il rosso e il verde...
Giuntura e separazione.
Sì.
Lei dice che la pittura è il Suo modo di scrivere, no?
Quello che mi è più congeniale.
Invece, quando deve scrivere con le parole è un'impresa immane. Però, un'impresa immane è anche dipingere.
Nel dipingere io trovo una logica maggiore di quella che trovo nel mettere insieme le parole. Siccome la pittura avviene più per allusione, allusione per allusione io riesco a trovare la continuità. Mentre con le parole faccio molta più fatica a ricomporre le allusioni e a dare loro uno sviluppo logico.
Kandinskij L'ha interessata?
Non più di tanto.
Una strada stretta la Sua. La strada che ha se guito per la Sua produzione è la strada stretta, nelle varie fasi, nei vari stadi, lungo gli anni.
Sì, è una strada stretta, però è abbastanza diretta.
C'è una direzione, ma è stretta. Compromessi ne ha accettati?
Ho l'impressione di non averne accettati.
Altrimenti sarebbe diventato di moda, no?
Sì!
È stato sempre lì lì per sfondare, ma non ha mai sfondato.
Ho partecipato, in alcuni periodi, ai premi di pittura. Qualche premio l'ho vinto anch'io; di solito, nella rosa c'era sempre il mio nome, ma poi il premio non lo vincevo.
Perché non conosceva nessuno?
Forse. Da ragazzino mi piaceva correre in bicicletta e qualche corsa l'ho fatta; però, non arrivavo mai primo, arrivavo terzo, quarto. È un po' quello che mi è accaduto con la pittura: arrivare sempre abbastanza vicino, ma senza arrivare al massimo riconoscimento. È chiaro che il riconoscimento della Biennale è stato importantissimo, perché altri artisti, anche di Bologna, nella stessa occasione sono stati esclusi.
Lì c'è stato chi ha avuto stima verso di Lei.
Poi c'è stata la Biennale a Zagabria...
Poi a Cracovia, dove Lei ha partecipato. E a Venezia, non più?
Probabilmente, in qualche lista di nomi sono entrato anch'io, però sono rimasto...
Il paragone della bicicletta è curioso, perché in quel caso non è una questione di compromesso, è una questione di logica. Lei dice che arrivava terzo o quarto nella corsa in bicicletta — che era un hobby, fra amici, negli anni cinquanta?
Sì.
Praticamente, Lei si organizzava in modo da non arrivare primo. Era Lei che si disponeva in modo tale da non arrivare primo! Io... avrei voluto arrivare primo.
Ufficialmente sì, ma di fatto no. Lei puntava a arrivare primo, ma c'era una logica per cui Lei stesso s'impediva di arrivare primo, non faceva in modo di arrivare primo.
Sì, probabilmente era la stessa situazione in questi premi.
A scuola, Lei non si preoccupava affatto di arrivare primo, quasi non gliene importava niente. Mentre, nella corsa in bicicletta, Le interessava arrivare primo, anche se quelle non erano gare ufficiali, non era in gioco il suo destino.
No.
Quindi, il paragone non so se sia calzante. Ecco, forse Lei non riteneva che fosse in gioco il Suo destino in quei premi. Lei ha vinto la Biennale, e ha detto: adesso non è più in gioco il mio destino.
Sì, un po' anche questo. E poi, non per fare del vittimismo, io non mi sono mai dato molto da fare con i critici che contavano in quel momento. Tutto quello che ho avuto l'ho avuto...
... per caso.
... per magnanimità. Alle mostre mi hanno invitato perché hanno pensato loro d'invitarmi, non perché io sollecitassi... Non ho mai sollecitato inviti, premi e cose del genere.
Quindi, le sette chiese le ha consultate solo nell'autunno del '62, di ritorno da Parigi, ma non è andato sempre a consultare le sette chiese! Sopra tutto, dopo l'insegnamento...
Sì. In quell'occasione mi sono rivolto agli amici, con i quali c'era una consuetudine, c'erano cose dette, ma non mi è mai successo di rivolgermi a un critico che non conoscessi per chiedergli qualcosa. Per esempio, a Fabrizio D'Amico la presentazione per la mostra del '93 l'ho chiesta. L'ho incontrato, gli ho chiesto questa cosa, lui ha detto: "Vengo a vedere le opere", è venuto, lo hanno interessato, ha fatto uno scritto. Poi mi ha detto: "Faremo altre cose", che non si sono fatte. Però io non sollecito, non telefono...
Lei non è mai entrato negli ingranaggi del potere sull'arte in Italia, in questi quarantacinque anni. Ha sempre evitato il successo. È stato lì lì per avere successo, ma poi lo ha sempre evitato, perché?
L'ho evitato naturalmente, per una mia costituzione: perché non sono molto aggressivo, non vado a chiedere, non mi presento molto, forse sono questi i motivi.
È un po' schivo?

E poi perché queste caratteristiche di sobrietà, di discrezione, di astrazione sono proprie del Suo itinerario e della Sua arte, non solo del Suo modo sociale.
Sì, sono modi del mio essere che si riflettono, poi, anche sul mio lavoro.
Il contrario, direi: sono modi del suo lavoro che si riflettono poi nelle cose.
Ho sempre pensato che un lavoro debba contare qualcosa indipendentemente da chi lo fa e da chi lo propone. Ho colleghi che...
Però, se nessuno lo propone rimane nello scantinato. Non mi pare una cosa interessante!
No, certo. Ci sono miei colleghi che si propongono. Io credo che se loro non si proponessero il lavoro finirebbe. Io ho sempre cercato di proporre il lavoro indipendentemente da me stesso.
Ah, ecco. Si è reso invisibile.
Diciamo così.
Ha proposto il lavoro; quanto a Lei, si è reso invisibile. Infatti, ha detto che la Sua persona e la Sua vita non c'entrano molto con la Sua opera, e così via.
Sì.
E con la politica? La politica ha sempre preteso di esercitare un'egemonia sull'arte e, quindi, anche un potere sull'arte, almeno per quanto riguardava le forze che...
... hanno amministrato l'arte nel pubblico...
... quindi nei ministeri, nelle amministrazioni locali.
No, con la politica non ho avuto molti incontri. Anche se ho fatto mostre con il partito socialista, ne ho fatte con il partito comunista, ho partecipato ai Festival dell'Unità quando facevano le mostre, ho prodotto della grafica per loro...
Ha fatto grafica e anche mostre alla Festa dell'Unità.
Sì, negli anni cinquanta, sessanta e settanta. Ho partecipato a manifestazioni che riguardavano gli artisti e l'arte organizzate da partiti politici...
Di solito era la sinistra, perché in Italia quasi esclusivamente la sinistra si è interessata all'arte.
Sì. Del resto, quasi tutti i critici, le persone che s'interessano all'arte sono di sinistra, o lo erano. Anch'io ho partecipato, ma senza avere mai un ruolo particolarmente attivo.
Non ha mai avuto la tessera del partito.
Mai.
Lei non è stato mai un militante di partito.
Anche se il partito ha fatto riferimento a me, per alcune cose. Ricordo, per esempio, quando ci fu una raccolta di opere per sostenere "l'Unità", mi chiesero alcune cose e io diedi cartelli di grafica. In altre occasioni, ho fatto una grafica originale per la Festa dell'Unità. Tutta la tiratura è stata venduta in quell'occasione.
Serigrafie, litografie, intende questo?
Sì.
Non lavori su carta.
Anche, ma sopra tutto cose stampate.
A proposito dei materiali usati, quali predilige?
Ormai da molti anni prediligo la pittura a acqua, acrilici e vinilici, perché hanno una resa molto diversa dall'olio. Credo che la pittura a olio sia legata a un certo tipo di rappresentazione che non è più la mia.
Però, ha utilizzato l'olio?
Sì, fino agli anni sessanta. Poi, sono passato a questi materiali più nuovi, più moderni.
Lei dice addirittura che con questi riesce meglio?
Sì, rendono meglio il mio tipo di lavoro; la pittura a olio, in qualche modo, ha sempre rimandi, quasi remore, direi, mentre questi nuovi materiali che uso nella mia pittura non rimandano a nessun'altra cosa.
Non c'è rimando, non c'è riserva, non c'è remora.
Non c'è. La pittura è proprio soltanto quella leggera patina che sta sopra la tela, ecco, non ha riscontri su qualche altra cosa che sta fuori di se stessa, insomma.
Resiste questa pittura?
Sì, le cose fatte nei primi anni sessanta sono ancora perfette. Non posso dire la stessa cosa della pittura a olio. Perché la pittura a olio...
... ha bisogno del restauro.
Sì. In certe pitture a olio degli anni cinquanta, per esempio, i bianchi sono ingialliti. C'è un quadro che tengo in casa, per cui non mi serve il restauro, ma, se dovessi utilizzarlo, dovrei farlo restaurare. Mentre in queste altre cose — a parte alcune, fatte con legno ritagliato, dove, magari, può essersi spezzato il legno compensato su cui è steso il colore — il colore è rimasto perfetto. .
Allora, consideriamo le opere presenti in questo catalogo. È la più grande mostra, finora?
Sì, la più grande.
Comprende opere dagli anni cinquanta fino a oggi.
Dal 1953 al 1998.
Può dire, man mano, qualcosa, anche tenendo conto dei titoli? Ha messo alcuni titoli curiosi.
Sì. Questa è un'opera del '53, che fa riferimento alle cose che io ho visto in quel tempo, per esempio Pollock.
Però, non è Pollock.
Non è Pollock. In Pollock, c'è un'agitazione del gesto, nello sgocciolamento, mentre qui lo sgocciolamento è lasciato. È un atteggiamento un po' più dadaista rispetto a quello di Pollock.
E, tuttavia, non è neppure dadaista.
Non è neppure dadaista. In quel periodo, ho fatto opere in cui c'è soltanto una macchia di colore lasciata espandersi sulla tela come vuole l'inchiostro... L'ho lasciata così, semplicemente, come un oggetto trovato, per riprendere un'idea di Duchamp, ho lasciato che la macchia si espandesse. Così come queste sgocciolature sono fatte...
Lei non ha influito per niente sulla macchia?
No. Anche se, naturalmente, più grande, più piccola, più colore, meno colore, qualche influenza c'è stata.
Ammettiamolo pure! Una macchia da sola non fa un'opera, dice Leonardo da Vinci, criticando Botticelli.
Ecco, qui c'è un'altra cosa, del '57, intitolata Ricordo di paesaggio. È una specie di paesaggio, c'è questa orizzontalità, sopra tutto anche nelle dimensioni della tela. Di questo paesaggio rimangono soltanto tracce, perché è come se fosse stato tagliato dietro e tutto quello che non è in primo piano fosse stato escluso: quindi, si trova praticamente su un fondo bianco. Questa è un'opera del '56, Il sole sulla collina, che ricorda quelle immagini neonaturalistiche...
Bellissimo. Mi deve dire perché ha messo questo titolo e, poi, Le assicuro che non ci trovo nulla di naturale.
C'è questo verde, queste luci che filtrano...
Ma non sono naturali. Sono innaturali.
Sì, infatti il neonaturalismo è un'altra cosa dalla natura, anche se ci sono echi che, qui, sono costituiti dal verde e da questo ammasso, che in qualche modo fa riferimento alle selve.
Sì, ma sono selve ben formate, ben articolate.
Ben inventate.
Ben inventate! Selve artificiali, non selve naturali. Perché ha messo il titolo Il sole sulla collina?
Perché c'è questa zona di luce che viene illuminata da dietro, e può in qualche modo alludere a una zona di terra tra il verde e...
Sì. Riprendiamo con gli altri quadri degli anni cinquanta.
Questa, per esempio, è una pittura della fine degli anni cinquanta, una pittura a carattere virtuale.
Come s'intitola?
Viaggio nel sole. C'è questa traccia rossa segnata, questo fondo giallo molto evidente.
Mi sembra una struttura quella, più che un informale.
Sì, è informale nel senso che è gestuale. Ecco, in questo caso è diventato gestuale, perché ho oscillato fra il materico e il gestuale, in quei due, tre anni definiti informali.
Quindi, non era né materico né gestuale.
Un po' entrambi e un po' nessuno dei due. Sto cercando un'altra opera, dove c'è sia una traccia di carattere gestuale, nel centro, sia una materia spessa come quella che avevo utilizzato negli anni '57-'58. È abbastanza simile a quella che si trova alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna, che comprò Arcangeli per la Galleria. Sono le cose cui fa riferimento anche Barilli, quando parla di sigla...
Di cifra.
Di cifra.
Se, con il pretesto dell'informale, Lei giunge alla cifra... è un'altra cosa dall'informale!
Questa, per esempio, è ancora una cosa degli anni cinquanta, Studio per una battaglia. Qui, ci sono sia il gesto sia la materia; infatti, c'è una specie di conflitto di queste tracce...
Di lotta, più che di conflitto.
Sì, di queste tracce e di questi colori. I colori sono molto espliciti: bianco e giallo, rosso e nero, su fondo bianco, molto evidenziati. E queste tracce sono in lotta fra loro. L'ultima immagine degli anni cinquanta s'intitola Frammento nel sole. Anno?
1957.
Quindi, negli anni cinquanta c'è spesso il sole...
Sì, c'è questo colore acceso, violento, ci sono questi gialli, questi rossi. È un elemento che torna abbastanza frequentemente. Qui, vedo che c'è una cosa del '53-'54, sono alberi. Questo forse è un po' naturalistico, c'è una separazione fra il cielo...
Assolutamente no.
Ecco, l'opera che cercavamo è questa, Frammento nel sole del '57, un'opera di grande spessore di materia. È molto evidente, qui, la materia. Fa parte di quelle opere dove l'immagine tende a accentrarsi, a raggrumarsi nel centro, mentre le opere precedenti, come quella battaglia di prima, sono molto più aperte. Qui, invece, l'immagine tende a addensarsi nella zona centrale del quadro. È un tipo di operazione che viene portata avanti negli anni sessanta.
Sì, vediamo le opere degli anni sessanta.
C'è quel passaggio, nel 1960, dove c'è soltanto una fascia orizzontale di materia: sono opere che ho fatto prima di andare a Parigi. A Parigi, queste fasce di materia si sono semplificate, sono diventate una specie di rettangolo, che veniva collocato in diverse situazioni. Qui ce n'è una, con una fascia orizzontale e zone quadrate, quadrati di colori: è una cosa che fa riferimento, se non proprio alla pittura geometrica, a una pittura molto equilibrata.
Come s'intitola?
Immagine e bianco, del 1961. Questa l'ho dipinta a Parigi. È una delle poche cose che ho riportato da Parigi.
Le altre?
Delle altre, qualcuna è andata perduta, altre più grandi, per esempio un quadro di due metri, le ho lasciate nello studio e non so che fine abbiano fatto. Alcune le ho lasciate a persone a Parigi, così. Qualche altra cosa è andata perduta in un passaggio di frontiera. Ecco, queste zone di colore... il colore, negli anni di Parigi, è molto differente rispetto a com'era in precedenza.
Cioè?
In precedenza, erano colori molto contrastanti, dei gialli, dei rossi, dei neri, dei bianchi. Negli anni di Parigi, questi colori si tranquillizzano, diventano dei bruni, dei grigi, dei bianchi, colori un po' bruciati. Vengono esclusi i colori primari, i colori fondamentali, per avere un'atmosfera più morbida, meno tesa, meno drammatica di quelle precedenti. Queste zone di colore, quando sono ritornato in Italia, le ho sostituite con collage di carte prese dai rotocalchi. Con immagini ritagliate. Qui ce n'è una: su un fondo di pittura molto mosso, vengono collocate immagini, piccoli simboli... È un lavoro di composizione, sopra tutto, dove entrano queste immagini. Queste immagini derivate dai rotocalchi, successivamente, esplodono. E occupano tutta la tela. Diventano pittura pop, per avere un riferimento conoscitivo. In un primo momento, io faccio particolari di fumetti in cui si evidenzia soltanto il suono del rumore, per esempio "Crack!", "Bum!", questi suoni io li scrivo a colori, metto in evidenza soltanto questi particolari. Poi, c'è un brevissimo periodo in cui rifaccio letteralmente il fumetto, in grande dimensione, aggiungendo sempre un particolare dei brani. Poi, comincio a ritagliare le immagini su legno compensato, a colorare e a montare i pezzi di legno in modo da ottenere ambienti con immagini ritagliate, molto fragili. Queste immagini fragili sono ancora riconoscibili, sono ancora figure; per esempio, due figure dormienti articolate in un certo modo, figure di donna, delle labbra, dei particolari. Dopo questo periodo, cerco di costruire e compongo sintesi di immagini: l'albero, la nuvola, il mare, elementi della natura...
Sono tipi: l'albero-tipo, il mare-tipo, la nuvola-tipo. È una tipografia.
Quasi.
Tipogrammi. È una tipogrammatica.
Queste immagini le mescolo, le compongo, le ricompongo all'infinito...
Nell'infinito, più che all'infinito.
... in modo da ottenere questa immagine di falsa natura...
La falsa natura c'è sempre stata nella sua opera.
Sì, però questa è esplicita. È esplicitamente falsa, è esplicitamente una falsa natura.
Non c'è mai rappresentazione, né della natura né della società né del mondo, se non come falsa rappresentazione, se mai. Oppure c'è la materia della rappresentazione, più che la rappresentazione della materia.
Questa è una creazione che faccio fino ai primi anni settanta. Nei primi anni settanta ho l'impressione che questa operazione di composizione e ricomposizione sia arrivata alla saturazione; allora, faccio una specie di passo indietro e opero riletture di opere famose composte insieme a elementi di falsa natura.
La natura di cui si occupa è la natura che c'è nelle opere d'arte!
Le mie nuvolette precedenti insieme a Colazione sull'erba di Manet, collocati in questa situazione, ancora dentro un mare, di quelli che facevo in quel periodo, e così via. Il motivo che utilizzo in tutti gli anni sessanta è il motivo della scatola, una specie di scatola, di confezione — così la chiamavo in quel periodo, volendo dire che tutto era confezionato, tutto mercificato: era una specie di critica ironica del consumismo di quegli anni, quando si è scoperto il consumismo.
Lei non rispetta la scatola?
No. Questa specie di scatola-confezione...
Scatola nera.
... in cui c'erano o le nuvolette o...
La teoria della scatola nera di René Thom è la teoria delle catastrofi: questa scatola contiene tutto, contempla tutto, anche la catastrofe, anche il negativo.
Questa è una cosa un po' diversa, nel senso che è proprio la confezione, e l'oggetto che veniva confezionato dentro la scatola, venduto e mercificato. Questa specie di scatola-confezione, un po' alla volta, diventa il quadrato. E esclude tutto il resto, esclude la rappresentazione delle nuvolette o del mare, falsa-natura, esclude la rappresentazione della rilettura delle opere d'arte, esclude tutto e occupa quasi tutta la superficie del quadro. Per riprendere quell'ipotesi di dibattito all'interno dell'opera, il quadrato, questa specie di quadrato dagli angoli arrotondati...
Quadratura impossibile.
... ha uno spessore materico che entra in questo dibattito con la superficie della tela, lasciata, invece, quasi pulita, quasi ruvida. Il ruvido della tela gioca, per contrasto, con lo spessore della materia. Siamo alla metà degli anni settanta, più o meno. Poi, la scatola, il quadrato, diventa sempre più importante, si carica di colore e si colloca non più su una superficie limpida, piana...
Apparentemente piana. ...
ma in una situazione di movimento. Quel dibattito che, prima, si svolgeva fra la superficie della tela e la materia del colore... C'è contrasto e dibattito.
... in questa situazione successiva, si svolge fra una superficie del quadrato, molto distesa, e una superficie molto movimentata su cui viene collocato il quadrato. Verso la fine degli anni settanta, dal '79 in poi, di nuovo la superficie tutta colorata, di nuovo i colori e, un po' alla volta, nasce la necessità di ritrovare il quadrato che si allarga, si dilata e io ritrovo l'orizzonte.
Negli anni ottanta.
Nei primi anni ottanta. Naturalmente, sono tele piene di colore, colori non violenti, sempre intonati senza discordanze particolari. Alla metà degli anni ottanta, faccio una breve rivisitazione di opere di artisti. Non più le riletture, come avevo fatto nei primi anni settanta, ma una specie di sintonia con certi artisti.
Quali sono?
Sono Cézanne, Rothko, Albers. Per esempio, per Rothko ho fatto un'opera che è intitolata Un orizzonte lungo sessantasette anni. Lui è vissuto sessantasette anni, è morto suicida a New York. Questo quadro è costituito da una linea centrale quasi fluorescente, di grande evidenza, di grande violenza, un rosa molto intenso, molto oscuro, su un fondo variegato, ma sostanzialmente fatto di due colori. Io faccio un riferimento a lui, ma anche in quanto artista che è vissuto sessantasette anni, che ha avuto questa sua continuità di vita, quindi non è una rilettura.
È una parabola.
Sì.
È Rothko portato in parabola.
Sì. Così, per esempio, di Cézanne ho ripreso un'idea della montagna, Mont Sainte-Victoire, con una linea che l'attraversa, e tutta la zona sotto è di un blu molto intenso. Ho pensato a questa montagna che s'immerge nell'azzurro del Mediterraneo, cosa che non ha fatto Cézanne. Ecco, non sono vere e proprie riletture, sono operazioni in cui cercavo sintonie.
Non sono neanche sintonie. Cézanne, anche qui, viene trasportato in parabola della Sua pittura.
Sì. Da Josef Albers ho ripreso il tema del quadrato, che però lui colloca in maniera prospettica e dal basso va verso l'alto, quindi con una funzione un po' diversa. Certo, anche nel mio lavoro c'è il quadrato, ma il quadrato non è una forma esclusiva di Albers.
E nemmeno di Malevic.
E nemmeno di Malevic, anche se entrambi lo hanno utilizzato ampiamente. Ormai, siamo agli anni novanta, c'è una rielaborazione di due o tre di questi elementi: l'elemento quadrato e l'elemento orizzonte. Negli ultimissimi anni c'è questo... Negli ultimi due anni, quando non è più preside...
Da quando non sono più preside... Le ultime cose sono su fondi neri, il nero occupa tutto lo spazio. Nel '94, ho fatto alcune opere con un fondo di diversi colori, su cui una larga pennellata nera occupa quasi tutto lo spazio. Negli anni successivi, questo nero si è dilatato fino a occupare decisamente tutto lo spazio, salvo una specie di alone centrale, che evidenzia l'orizzonte. Attorno a questo orizzonte, si addensano poche, rare pennellate di colore. Questo è il lavoro degli anni '95-'96. Nelle ultimissime cose c'è sempre questa immagine del quadrato con un alone che lo evidenzia e, a volte, intervengono uno o più elementi verticali che s'inseriscono, interrompono...
C'è una rarefazione linguistica, nell'ultimissimo periodo.
Sì, anche se ho ritrovato un colore molto più carico, molto più vivace. Nelle opere più recenti, ho fatto fondi rossi, fondi gialli, fondi neri, fondi blu. Insomma, colori abbastanza forti. Questo è il lavoro che sto facendo anche adesso.
Adesso, che non c'è più la scuola, incomincia il bello! L'avvenire sta dinanzi.
Speriamo. È quello che mi auguro!
Non c'è mai il purgatorio nella Sua opera?
No, non c'è. Direi che è un lavoro che si svolge con una certa felicità, perché mi piace esprimermi in questo modo. Quando posso scaricare delle cose su questa superficie...
"Scaricare", per modo di dire.
Quando posso fare queste cose sono abbastanza felice, anche se a volte sono cose che hanno una loro drammaticità.
Però, vengono elaborate nella Sua opera.
Sì.
C'è stato, nella Sua vita, un dolore estremo?
No, direi di no. Ho avuto dei dolori, come tutti.
Né la morte del padre né la separazione dalla moglie...
No.
La mamma è morta a 97 anni. È vissuta con Lei?
No.
Viveva da sola?
Ultimamente, sì. Da sola, nel senso che la sorella e mio cognato hanno una piccola azienda, e una casa vicino all'azienda: al primo piano abitava mia madre, al secondo piano mia sorella. Quindi, aveva il suo appartamento.
Sì, però era con la sorella.
Tutti questi sono avvenimenti che io, non so se giustamente o in maniera sbagliata, ho razionalizzato. Sono stati momenti di dolore, di cui io, però, mi sono fatto una ragione.
Un nuovo slancio. Siamo qui, in una sala della Villa San Carlo Borromeo dove ci sono alcune opere di Alberto Bragaglia, dal 1915 agli anni venti. Come Le sembrano? Non è inquadrabile questo pittore, anche se accanto a lui c'erano Boccioni, Balla e molti altri; era sopra tutto filosofo e artista.
Mi piacciono molto di più quelle dove non ci sono le figure. Dove c'è la luce, sopra tutto. Lui fa un futurismo di luce. Quello che, poi, in qualche modo riprenderà Balla...
È più statico Balla.
Sì, più freddo. La provenienza di Balla è il divisionismo, il puntinismo, un tipo di pittura probabilmente ancora di fine Ottocento. Non è la nuova pittura, il futurismo del Novecento. Bragaglia, invece, fa un'operazione abbastanza originale: non si rifà agli schemi precedenti, ma ha questa idea di futurismo di luce, un'idea abbastanza originale.
Dipinge a Frosinone, a Roma e a Anzio.
Sì, probabilmente, è stato anche molto in contatto con artisti come Balla e Boccioni.
Tuttavia, non è la sua strada.
Lui non ha avuto un'attività pubblica, come artista.
Ha fatto mostre, subito. Poi, ogni tanto. Ma insegnava filosofia, ha scritto tanti libri di estetica, di architettura, di urbanistica, di filosofia dell'arte. Vorrei chiederLe: c'entra l'Emilia nella sua opera?
No, è una casualità. Mi è capitato di nascere e di vivere in Emilia...


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