Di Armando Verdiglione
Quanto noi — guardando, osservando, ascoltando — giungiamo a dire, a narrare e a scrivere intorno al testo di Montevago costituisce un preambolo per la lettura, che ancora resta. I supporti della presunta storia dell’arte, della letteratura, delle idee qui non reggono. Critici, galleristi, direttori di musei pubblici e privati, storici, scrittori, filologi se ne sono occupati. Ciascuno a suo modo. Ciascuno con il suo contributo. Ciascuno accorgendosi dell’inconfondibilità e dell’unicità del testo. Montevago ha trovato il suo interlocutore? Ciascuno, per qualche verso e per qualche tratto, interlocutore è stato. Montevago è grande. Anzi, grandissimo. Il suo testo è senza comune misura. Senza riferimenti ideologi o mitologici. Senza precedenti. C’invita a capirlo, a intenderlo, a leggerlo. È sicuro: esso avrà molti interlocutori. “Di sicuro, ho fatto qualcosa di nuovo nel campo dell’arte”. Senza compromessi, né sociali né politici. E in assenza di paura, con tutti i suoi animalismi. Montevago convoca a vedere e a udire quello che mai è stato visto e udito. Senza più il visibile. E, in senso proprio, senza più l’udibile. E le cose s’intendono. Nella loro luce. Non essendo illuminate. Senza bisogno d’illuminazione, che è sempre naturalmente conformista. Il più astratto degli artisti del Novecento risulta naturalista al confronto con il testo di Montevago. Montevago è, per altro, il più difficile, il più complesso e il più semplice dei maestri italiani degli ultimi cinquant’anni. Chi è Montevago? Lo scienziato della parola. L’anatomista della terra. Il poeta e lo scrittore del paradiso. Lo scenografo delle galassie. Il regista della civiltà dell’avvenire. In breve, il siciliano vero. L’umanità nel terzo millennio. L’amicizia come valore assoluto. “Con i miei dipinti, faccio in modo intellettuale e in modo artistico. Ma, nel senso sociopolitico, posso fare ben poco. Nessuno mi ascolterebbe”. Ascoltare i geroglifici. Ascoltare gli strati di memoria, di scrittura, di civiltà. Intendere come gli strati, nella loro simultaneità, quindi senza contemporaneità, si qualificano. L’altra stratigrafia. Ciascuna opera procede dalla verticalità per approdare agli effetti di verità e di riso, effetti della qualità, in cui si combinano la giuntura e la separazione. Ciascuna opera è inassumibile quanto inesauribile. In nessun modo, può essere controllata né dominata né significata. “Ogni opera ha il suo istante. Come si fa a dire se un’opera è migliore di altre?”. Ciascuna opera è segnata dall’infinito e dall’eternità dell’avvenire. E si compie. Fino all’incredibile. Fino all’inopinabile. Fino all’inimmaginabile. Fino al tipo della sembianza e alla cifra del linguaggio. “Nel momento in cui io concludo l’opera, io già so che l’opera è compiuta”. Ciascuna opera propone un viaggio, una navigazione intergalattica, una migrazione intellettuale. E coinvolge l’uditore. In un dispositivo, che è nuovo. E il paesaggio è più scientifico che fantastico. Paesaggio linguistico. Paesaggio scritturale. “La luce viene dalla Sicilia. Il fuoco viene dall’Etna”. Il fuoco, che rimane fatuo, impedisce di personalizzare o di rappresentare l’infatuazione. Il fuoco. Ovvero il colore. Ancora e in modo originario, obscurus: invisibile, inafferrabile, intoccabile. Il fuoco: il simulacro, la carne, la moneta. E per ciò: lo specchio, lo sguardo, la voce. La condizione del viaggio, nella sua luce e nella sua comunicazione. “Tutto il fuoco che esce dall’Etna, ce l’ho io, dentro di me”. E proprio per questo Montevago non è mai straniero in nessuna città. Che egli narra e scrive. Di Catania, di Terni, di Roma, di Bologna, di Milano, di Nizza, di Parigi egli non fa nessuna figurazione, nessun riporto mnestico. La lezione della civiltà mediterranea come civiltà planetaria è tratta da un grado irraggiungibile, dal dispositivo rivoluzionario di scrittura, alla confluenza ritmica delle cose, all’integrazione delle istanze originarie dei monoteismi. E la figura è infigurabile e infigurativa. Il ricordo s’inscrive nel programma di ciò che avverrà, anziché in ciò che sia avvenuto. Può mai pesare? La memoria è tratta dalla rivoluzione e dai suoi dispositivi intellettuali verso la cifra. Montevago si propone di “costruire qualcosa di essenziale per la civiltà”: e non ha avuto né ha altri interessi se non per ciò che resta, per ciò che giova alla civiltà. Nessuna gnosi, che invece interviene, per qualche aspetto, nelle avanguardie del Novecento: la distruzione e la costruzione non si conciliano, non s’inseguono, su un principio economico, in cerca di una superiore sintesi. E la ricchezza resta di spirito. Senza l’ideologia del benessere, del bene da accumulare, da assumere e da distribuire. “Il destino dell’uomo non è la distruzione”. Montevago propone una straordinaria cura intellettuale: noi leggiamo le sue opere e non abbiamo modo più di spazializzare l’intervallo, di soffermarci sui nostri ricordi, sulle nostre difficoltà. Il distacco giova alla condizione del viaggio. La civiltà non si distrugge. La memoria non si cancella. Questo è il palinsesto di Montevago. “La missione dell’artista è capire e intervenire”. E ciascuna opera avanza il suo contributo alla civiltà. La scrive. E la qualifica. Nessuna linearità. Nessuna circolarità. E non riscontriamo, in nessuna opera, il fondo e neppure lo sfondo. Niente gravità. E oltre il principio della prospettiva. Internet offre una pallida idea di questa navigazione, le cui fondazioni sono le particolarità stesse, le logiche stesse. L’antico, come l’originario, s’inscrive tanto nel moderno quanto nell’avvenire. E l’avvenire sta qui, in ciascuna opera, dinanzi a noi, nella sua eternità. Nella sua qualità. Nessuna opera ripete l’altra. Nessuna opera concorre al circolo. Questo turismo intergalattico non pone dinanzi nessuna opposizione gnostica fra la solarità e l’oscurità, che non si rappresentano come un bivio, come il regno del nord e il regno del sud, come la sommità e l’abisso, come il positivo e il negativo. Orfeo, Enea, Dante Alighieri. Montevago non propone nessuna discesa agli inferi, nessuno spettacolo dell’Acheronte, nessuna profondità animale. Il cielo è già l’equilibrio originario, il due, l’inconciliabile, l’inferno e il superno, la relazione da cui procede il viaggio. Montevago trae l’estrema lezione di Colono e del Golgota: il trauma della terra fa l’anatomia del paradiso. E non c’è più sistema. L’anatomia della terra segna il ritmo delle galassie. Impossibile vedere o immaginare le galassie. Impossibile saperne qualcosa. Ciascuna opera ritrova l’infinito delle galassie su cui si staglia l’anatomia della terra. Il tempo. Nella sua eternità. Nell’eternità dell’avvenire. Non più la veduta aerea. Non più la panoramica dal punto più alto o dal punto più basso. Ma la stratigrafia della terra come stratigrafia della civiltà. E nulla si distrugge. La scrittura ancora si legge. Senza più punto di vista. Senza più angolazione. Senza gerarchia fra la centralità e la marginalità. Dovunque noi ci situiamo per guardare un’opera di Montevago, ci ritroviamo tratti nel suo viaggio. E costituiti. Insistiamo: l’anatomia della terra appartiene al paradiso. Fino al suo piacere. Fino alla sua felicità. “Sono convinto che le mie opere resteranno”. E ancora: “Qualcosa della mia arte resterà”. Empedocle. Gorgia da Lentini. Archimede. Teocrito. Cielo d’Alcamo. Giovanni Verga. Luigi Pirandello. Per altra via, con altri modi, con altri mezzi e strumenti ciascuna opera di Montevago raggiunge forza, intensità e qualità. Senza l’alternativa tra la morte e la vita. E nella simultaneità fra il sentiero della notte, il sentiero del giorno e il filo del crepuscolo. E per stagioni altre da quelle naturali e convenzionali. Per stagioni perenni. Nessuno può situare nell’annata o nella provincia nessuna opera. Ciascuna enuncia l’enigma della semplicità e il piacere della civiltà. Ciascuna con la sua vibrazione, con il suo timbro, con la sua cifra. “Dipingo per vocazione”. Questi originari esercizi di scrittura si tengono lontani dal catastrofismo e dalla drammatizzazione. E non offrono nessuna via comoda, nessuna calma. La classicità sta nella loro novità assoluta. “La Sicilia forse è stata la spinta della mia opera”. È stata. La spinta: la pulsione, la forza, la virtù intellettuale. Come intellettuale è la nobiltà di Montevago. Sicché, tanto per indicare che il suo testo e il suo dispositivo risultano qualcosa che non ricorda nient’altro e che non ha il compito di rappresentare nulla, i critici hanno sentito il bisogno di parlare di montevaghismo. Montevago è la sua bottega come dispositivo intellettuale e la cifra del suo testo. “La Sicilia ha qualche cosa che incanta”. E niente polifemia. Montevago non si parla addosso. Non si dipinge. Non si fa il ritratto. Né s’immagina. Né si crede. Nessun predominio dell’occhio sullo sguardo. La visione ha la sua condizione nello sguardo. È il viaggio dal cui ritmo risulta imprescindibile l’ascolto. “Con la mia pittura do qualche cosa anche alla Sicilia”. Montevago restituisce, con la lettura che è la sua pittura, il testo della Sicilia. E lo consegna al terzo millennio. Nessuna dimensione è spaziale, ma di parola. Nessuna costellazione fa il verso della natura morta, su cui praticare l’animazione. Ciascuna costellazione s’inscrive nell’aritmetica dell’infinito. La characteristica e la tipografia non hanno bisogno più né dell’abito né del personaggio né della topologia. La donna, l’uomo, i pupi, il coro, il pubblico, la Madonna con Bambino: il ritratto partecipa alla scrittura della città del tempo, città dell’anatomia della terra. Il fuoco resta la condizione. E niente genere. Ma l’umanesimo altro. L’ospitalità. Altra. Nella sua politica. “Io sono qui, ma sono sempre amico dei miei amici, anche se non li vedo”. Gerusalemme, Cartagine, Atene, Roma: la città del tempo è città planetaria. Ciascuna opera ne dà una cifratura. Non più soltanto le pièces, le novelle, le fiabe, i romanzi, le tavole della Sicilia, del Mediterraneo, della civiltà. E oltre la saga. E nulla è già trascorso. La memoria non fissa, ma si scrive. “La Sicilia è apportatrice di cultura, d’intelligenza. I siciliani capiscono a volo”. La Sicilia sorge da millenni di memoria, di storia, di narrazioni, di arte, di cultura nel testo di Montevago, dove essa scrive il nostro avvenire. Dallo zero alla cifra. E ogni padronanza è apparente. La nostra direzione è ormai chiara, semplice e di qualità.
Il materiale di questo sito è tratto dal libro d'arte "Montevago. La Sicilia. Le dimensioni della parola. Il piacere della civiltà", a cura di Fabiola Giancotti, Spirali/Vel 1999 |