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L'intervista

Armando Verdiglione intervista Antonio Vacca

Quando sei arrivato a Roma?
A Roma sono arrivato nel 1967.

E quanti anni avevi?
Ventinove. Sono nato nel 1938, il primo maggio.

Da dove venivi?
Venivo da Francavilla Fontana, dove sono stato fino al 1957, fino a diciannove anni. Poi, tutta la famiglia si è trasferita a Taranto, perché i miei avevano...

Ereditato?
No, sono stato un po' influenzato dal fatto che loro avevano un negozio di alimentari. Poi, hanno stabilito questa attività a Taranto.

[...]

Che studi hai fatto a Francavilla?
Avevo frequentato le scuole regolari. E andavo a Ostuni, perché facevo l'Istituto tecnico agrario. Volevo diventare perito agrario. Però, quando ci siamo trasferiti a Taranto, dovevo partire per Ostuni per stare sul posto. Mi ricordo che, quel giorno, ci fu un temporale notevolissimo. Non potei più partire. E, da Taranto, non sono più andato a Ostuni. Sicché, ho perso quell'anno in cui mi sarei dovuto diplomare. Non l'ho fatto più.

Poi, che cosa hai fatto? Avevi 19 anni, a Taranto.
Quando ero ancora a Francavilla, venivo attratto dalla pittura, perché mi piacevano molto i fumetti e il cinema. Per me, il fumetto non era la storia in sé - questa poteva anche non dire niente –, m'interessavano molto l'impostazione, il disegno, l''estetica del disegno, tutto quanto. Periodicamente, ne venivo attratto.
Non sempre. Non tutto l'anno. Poi, è diventata un'abitudine sempre più frequente.

Che attività svolgevi a Taranto?
A Taranto, quando ci siamo trasferiti, lavoravo e facevo il rappresentante per società importanti di generi alimentari.

Sempre nel settore della famiglia.
Sì, perché i contatti erano frequenti, con ispettori e altri. Ho svolto questa attività.
Nel 1966, mi sono sposato. Ho sposato la figlia di un pittore realista, che era anche disegnatore al Nazionale di Taranto.
In seguito, tutti quanti, compresi i genitori di mia moglie, ci siamo trasferiti. E questo ha influito sulla mia tranquillità.
Da lì, ci siamo trasferiti a Roma.

Anche i tuoi genitori?
No, io, mia moglie e la famiglia di mia moglie. Mi sono trovato dentro una situazione che mi piaceva moltissimo, per quanto riguarda l'arte.

Avevi 29 anni. Che cosa hai fatto a Roma?
Dipingevo quadri, anche di notte. Di giorno, andavo alla ricerca del collezionista, dell'amatore d'arte e cercavo di venderli. In pratica, da quando ci siamo trasferiti a Roma, non ho fatto altro che il pittore. Anche mio suocero dipingeva figure straordinarie.

Anche lui...
Sì. Alcuni commercianti compravano anche i suoi quadri.

Da rappresentante di generi alimentari a rappresentante di opere d'arte.
Cambiando la città, mi sono dedicato completamente all'arte.

Il suocero, per te, è stato quasi un maestro?
Umberto? Si può dire di sì, per l'impostazione, per la tecnica coloristica.

Anche per la tecnica grafica?
Per la tecnica grafica, no. lo mi allenavo moltissimo: a suo tempo, mi piaceva moltissimo il disegno.

Però, opere tue, a Taranto, ne avevi fatte?
Sì, partecipavo a mostre estemporanee. Quando si facevano le estemporanee, il comune organizzava tutto, pagava tutto e offriva anche il pranzo ai pittori. Il contrario di quel che si verificava a Roma, dove i pittori pagavano tutto.
Non avevo mai il tempo di organizzare una mostra, di accumulare quadri. lo volevo vivere dei quadri che facevo e rimanevo sempre senza quadri.

E dovevi vivere anche di quelli che faceva il suocero. Non era bravo a vendere?
No, e poi era anziano, pensionato.

Tornando a Francavilla, i tuoi nonni vivevano lì?
Sì, io ho conosciuto il nonno di mio padre. Non me lo ricordo molto bene. Mi ricordo, però, che stava male, sicché, dopo, non l'ho visto più. Il nonno materno, invece, lo frequentavo moltissimo.
Era alto, come mia madre. Con questi baffoni. L'ho frequentato, addirittura, fino a quando è diventato cieco, perché, forse, aveva una cataratta non controllata e, all'epoca, non era possibile fare operazioni. Me lo ricordo molto bene.

Erano contadini questi nonni? Che cosa facevano?
Erano un po' proprietari terrieri, avevano qualche appezzamento di terra. Vivevano della loro terra. D'estate, andavamo in campagna. E, d'inverno, stavamo al paese. Questa era la nostra attività. Poi, non si vedeva l'ora che arrivasse l'estate, per andare in campagna.

Però, i genitori avevano un negozio.
Sì. Mio padre pure era un appassionato campagnolo. Aveva un pezzo di terra: e la sua gioia era di andarsene in campagna.

A coltivare?
Quel tanto. La loro attività era quella. Mia madre era più attiva.

I tuoi genitori sono ancora vivi?
Mio padre, no. Mia madre è ancora viva. Ha 87 anni.

Quindi, Tu arrivi, nel 1957, a Roma e frequenti le mostre.
Sì. A Roma, l'attività di frequentazione delle mostre, per farmi conoscere e avere anche un'impostazione interessante, era intensa. Partecipavo a avvenimenti artistici.

Però, un maestro, Tu non l'hai avuto, né a Francavilla né a Taranto.
No, ero autodidatta: sperimentazione, ricerca. Anzi, io mi meraviglio come abbia avuto la forza di andare avanti. Mi viene la pelle d'oca, a pensare a queste cose.
La prima cosa che mi ha messo in difficoltà è stata questa grande città. Mi sono prefisso, all'epoca, di conoscerla in tutti gli angoli dove potevo inserire un mio quadro. Questo mi dava sicurezza.
Altrimenti, mi sentivo sperso. La prima cosa che ho fatto, prima di vendere, è stata di conoscere bene la città. Le mie tematiche erano queste: sempre agganciate alla città. Agglomerati, complessi urbani, aquiloni, nudi nel giardino.

Sono questi gli argomenti fin dai primi anni a Roma.
Sì. Partecipavo a qualche mostra estemporanea, anche molto importante, dov'erano presenti pittori noti. Ho partecipato al Premio Mazzacurati, Alba Adriatica. Quando vedevo che la cosa era importante e che poteva incidere sulla mia apertura intellettuale, per dir così, io vi partecipavo, quando avevo il tempo di farlo e le possibilità. Io mi meraviglio come io abbia creduto, come mi sia convinto di potere vivere dell'arte, dei quadri che facevo e che, poi, dovevo inserire. E questa cosa, poi, mi è rimasta! Una cosa!

A parte, in un certo modo, il suocero, c'è qualche altro artista?
Dopo cinque anni che stavo a Roma, nel 1972, e dopo che è nato il mio secondo figlio, Alessio, in febbraio, un'estate di quell'anno, ho conosciuto, in una galleria di via Margutta (dov'erano alcuni miei quadri in esposizione), Antonio Vangelli. L'ho conosciuto proprio lì. Il giorno dopo, poiché il gallerista stava organizzando una mostra di Vangelli a Bari, siamo partiti e siamo andati a Bari. Abbiamo subito fatto amicizia. Immediatamente.
Io, Vangelli, l'avevo anche notato. A Taranto, tra noi pittori che facevamo ricerca, eravamo informati delle ultime attività, delle ultime ricerche anche di altri autori. Quando sono arrivato a Roma, ho visto che c'era una produzione un po' commerciale.
Ho notato Antonio, invece, che faceva queste figure e era molto mediterraneo: si accostava alla macchia o a una gestualità, che confaceva a me, mi sensibilizzava. Ero sensibile a questa forma.
Però, non capivo la sua firma. Era una sigla. Poi, ho domandato chi fosse. E mi dissero che si chiamava Antonio Vangelli. Sono subito entrato in confidenza con lui. Siamo partiti e, poi, da lì, è iniziata la collaborazione e lo studio insieme.

Quindi, in qualche modo, egli è stato tuo maestro?
Sì, si può dire, anche se la mia convinzione, nella pittura, era ormai tale, che avevo aperture, affrontavo qualsiasi questione artistica. Non avevo da imparare una tecnica o un'impostazione, un impasto. Anzi, tecnicamente, ero molto confacente. La spontaneità di Antonio Vangelli si vedeva già nel modo d'impostazione dell'opera.

[...]

Tra gli artisti del novecento, per dir così moderni, ce n'è qualcuno che t'interessava?
M'interessava il quadrato di Malevič, suprematista. All'inizio, ho fatto quadri catramati, dove mettevo un quadrato in metallo, per il "proseguo" di elementi che potevano ancora vivere, nonostante ci fosse stato un autore, Malevič, che aveva già attuato la cosa per conto suo. Ma c'è un punto in cui Malevič si ferma (o che non ha capito come proseguire) e lì sta la scintilla: capire come ha lasciato e agganciarsi a una situazione e svilupparla, perché l'arte possa ancora proseguire. M'interessavano questi elementi suprematistici. Così, facevo quadri, che erano quadrati, elementi strutturali, dentro cui navigavano piccole figurazioni. In un quadrato, si svolgeva tutto un materiale che si sarebbe dovuto sviluppare.
Da lì è nata la questione. A Taranto, si è sviluppato uno strutturalismo della città e degli agglomerati: ci sono righe e poi, dentro, alcune case limitano il quadrato, il rettangolo, la struttura stessa della città, messa in una situazione. lo vedevo che, ormai, il tempo della contemplazione era concluso e che l'impressione della città era fatta di righe. Non c'era più la possibilità di fermarsi. Non c'era più tempo. Tutto era strutturato, fatto di tratti, luci, impressioni. Allora inventavo la città in questo modo. E mi piaceva. Quando facevo un'estemporanea, la facevo in situazioni astratte, di un paese tutto strutturato, messo come lì. Ho avuto molti premi nella provincia di Roma, quando mi muovevo. Era anche una forma, per fare una gita e scoprire il paese, il territorio.

Oltre Malevič, c'è qualche altro artista?
Mi allenavo su Rembrandt, molto: c'era una figura femminile, che era molto delicata e che facevo con piacere. Era una contadinella, che stava nella stalla, però, adesso, non ricordo come si chiamasse. Mi è servita, questa figura, per dare il tono al colore, alla mia impostazione coloristica. Rembrandt enuncia un fattore di luce straordinario. E, tra ombre e luci, questa figurina era straordinaria. E, lì, mi allenavo: quando ero ragazzo, e anche quando ci siamo trasferiti a Taranto.

Quindi, Malevič, Rembrandt.
E poi, tutti i movimenti che si sono verificati fino al futurismo.
Mi piaceva molto il cubismo: c'erano queste battute, queste puntinature di colore, che erano ribaltabili. A me piacevano, mi hanno insegnato moltissimo: come procedimento, come punti di riflesso, che, toccati da luce, appaiono come piccoli diamantini, che si muovono. I movimenti, in genere, fanno capire molte cose.

Altri artisti? Il futurismo, abbiamo detto, ma sopra tutto il cubismo.
Io non ero molto interessato agli altri artisti. Ero molto impegnato a capire me stesso. Ero poco influenzato. Volevo capire me stesso. Piccole cose m'interessavano, per l'effetto. Quando si fa un quadro, non si pensa a niente. Tu hai a disposizione la materia e devi manipolarla secondo la tua disposizione. Se ti sporchi le mani, c'è un motivo. Non c'è una cosa davanti a te, una fotografia, oppure un'immagine, per cui tu possa dire: "lo faccio così". Così, non riuscirebbe mai.
È la mia stessa sensibilità, regolo io come impostare qualcosa. Quando si fa un quadro, da un segno può nascere un' altra cosa. A seconda di quello che si ha a disposizione.
E da lì può nascere un' opera. Poi, se diventerà un' opera, non si sa. Comunque, è sempre un' operazione.
Anche se è un' operazione artigianale, se è sempre una prova, si acquisiscono elementi.
Dentro di noi, può esserci l'incisività di conoscere la figura, allora la si fa muovere secondo la nostra sensibilità in quel momento: se voglio che, in quel momento, sia statica, oppure che sia libera. Oppure, a un certo momento, è venuta talmente leziosa che bisogna muoverla in altro senso.
Lavori, finché tu senti che il quadro stesso, il supporto, la materia ti dicono di non mettere più nulla. Bisogna acquisire questa sensibilità.

Leggi il resto dell'intervista nel volume Artisti di Armando Verdiglione.

 
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