ARMANDO VERDIGLIONE INTERVISTA FERDINANDO AMBROSINO
Lei nasceva a Bacoli.
Sì, una cittadina flegrea in provincia di Napoli.
In che anno?
Nel lontano 1938. Ho compiuto i miei sessantaquattro anni. Ma, grazie a Dio, mi sento in pieno vigore, per creare per moltissimi anni ancora.
Inizia la nuova stagione. Anche i genitori erano di Bacoli?
I miei genitori erano di Bacoli e i miei nonni erano di Procida. Infatti, il cognome Ambrosino è originario dell’isola di Procida. Una bella isola.
E da parte materna?
Da parte materna, i genitori venivano da Salerno.
Comunque, sempre dalla Campania. Bacoli però, nel 1938, era più piccola di oggi, almeno come numero di abitanti.
Era un paese molto piccolo. Bacoli è divenuta comune autonomo nel 1917.
Si trova nel golfo di Pozzuoli.
Si affaccia sul golfo di Pozzuoli. Il mio studio è proprio di fronte al golfo. Prima, Bacoli era una frazione di Pozzuoli. Oggi, è una cittadina di trentamila abitanti, con i suoi problemi nel periodo estivo, perché si affaccia sul mare, ha belle spiagge e, quindi, attrae molti pendolari da Napoli.
Poi, ha una storia antica.
Molto antica. A Bacoli, dovunque si scavi, ci sono opere di epoca romana. Alcune sono state valorizzate, altre distrutte nel tempo, ma le cose più belle si possono ammirare.
Altre cose sono sorte quando la città di Napoli era la metropoli del pianeta, cinquecento anni or sono.
Bacoli è anche sul territorio di Cuma. E Cuma rappresenta un punto fondamentale della storia della cultura romana e della cultura antica. A Cuma, sbarcarono i primi greci. E c’è una presenza magica: l’antro della Sibilla. Non so se glielo ho detto, ma ho fatto un servizio fotografico all’interno dell’antro. Abbiamo trasportato lì i miei quadri.
Sì. Sono foto in bianco e nero, di notevole efficacia.
C’è una magia particolare.
Da Procida si era trasferito il nonno o il papà?
Il nonno.
Era marinaio?
No, era della campagna. Amava la campagna. Infatti, il suo vino era buono. Produceva la Falanghina, il Piedirosso e l’Aglianico. Era un buongustaio. Tenendo il cellaio vicino alla spiaggia, dove i pescatori tiravano la sciabica, egli li invitava a bere con l’orce, che spillava dalla botte.
Mentre loro avevano il pesce fresco. Invece, il nonno materno veniva da Salerno e si era stabilito lì.
Era stato emigrante, uno dei primi, agl’inizi del secolo. Si trasferì negli Stati Uniti, dove rimase moltissimi anni. Anche mio padre andò negli Stati Uniti.
Suo padre emigrò negli anni venti?
Sì, subito dopo la guerra. Trascorse un lungo periodo, dieci anni, senza tornare mai.
Il nonno materno, che vi era stato all’inizio del secolo…
... è rientrato molto più tardi di mio padre. È rimasto lì trent’anni, senza volere mai portarvi la famiglia. Andava, veniva, faceva figli e tornava in America. Non voleva trasferirsi con la famiglia.
Non pensava di trasferirsi, ma pensava di ritornare.
Però, ha trascorso lì un lungo periodo.
Chi arriva a Bacoli può andare in tutto il pianeta, anche negli Stati Uniti, ma, poi, ritorna a Bacoli?
È un’attrazione. È un paese che affascina. Mio padre rimase negli Stati Uniti dieci anni. Quando tornò, ancora giovane, quarantenne, sposò mia madre, ventenne.
E i fratelli, quanti sono?
Siamo tre fratelli. Uno ha seguito le orme paterne: a ventidue anni, dopo il servizio militare, è partito per il Venezuela. Allora, si preferiva il Sudamerica, perché offriva molte possibilità.
Questo, nel dopoguerra.
Nel 1952, nel secondo dopoguerra.
Negli anni cinquanta, c’erano l’Argentina, il Venezuela, poi, il Canada o l’Australia. Non c’erano, come negli anni dieci e venti, gli Stati Uniti.
A Caracas, mio fratello ha fatto tanta strada. È diventato un industriale. Adesso, il Venezuela non è più una grande nazione. Sta attraversando un periodo molto particolare.
[...]
E l’altro fratello...
L’altro fratello, invece, è vissuto e vive a Bacoli [...] è stato impiegato dello stato, all’Intendenza di finanza di Napoli, per trent’anni. Adesso è in pensione, fa il nonno, e per lui va bene.
Certo, mantiene anche lui i valori, in un altro modo; egli ha viaggiato all’interno, altri hanno viaggiato all’esterno. E ha fatto la sua esperienza, pur stando in Campania.
Ciascuno ha il suo modo di essere, di vedere. Ha i suoi desideri, le sue ambizioni. Egli non ama molto girare il mondo e l’Italia. Quindi, è tranquillo. Io e l’altro fratello di Caracas siamo più intraprendenti, nel senso che amiamo visitare le città, girare il mondo. Io, in particolare, amo molto visitare e conoscere.
E poi, l’intera Sua opera è un viaggio.
Certo, un viaggio.
Pur mantenendo, però, questa base a Bacoli.
La base del viaggio è Bacoli. Il mio percorso artistico parte da Bacoli.
[...]
Quindi, Lei è il terzo figlio. Se il primo viaggia, va negli Stati Uniti, e il secondo segue la tradizione, diviene impiegato dello stato e rimane nella sua terra, il terzo non fa né l’una né l’altra cosa. Oppure, in un certo senso, fa l’una e l’altra, sia viaggiare sia tenere ai valori, reinventandoli.
Sono stato tentato molte volte, ventenne, di trasferirmi negli Stati Uniti. Non l’ho fatto come avevano fatto mio fratello e mio padre, ma in maniera diversa, andando spesso negli Stati Uniti.
Frequenta gli Stati Uniti, perché c’era il racconto del nonno materno e del papà. Gli Stati Uniti c’erano già nel racconto di quando era bambino.
Nella memoria sono rimasti gli Stati Uniti e New York, le tante cose che mi ha raccontato mio padre, le tante avventure, il suo impegno per il lavoro, tanti episodi. Io non mi sono trasferito negli Stati Uniti. Però, è come se lo avessi fatto. Poi, ci sono stato. Ho iniziato anche un itinerario artistico. Ho fatto varie mostre.
[...]
Quindi, Lei nasceva nel 1938; poi, ci fu la guerra, per cinque anni.
Ero molto piccolo. I ricordi sono molto sfuocati. Nel 1943, la guerra nel sud era terminata. Quindi, dall’età di cinque anni, rimane qualche immagine molto sfuocata.
E poi, dopo il 1943, nel 1944 e nel 1945, incominciano le elementari e, negli anni cinquanta, le medie e il liceo classico. A Bacoli o a Napoli?
No, a Bacoli non c’erano ancora le scuole medie. Feci le medie e il liceo classico a Pozzuoli.
Era il centro principale.
Oggi è una cittadina di circa centomila abitanti. E rimane un centro importante dell’area flegrea.
Alle medie e al liceo il disegno era obbligatorio.
Ma io, puntualmente, non lo realizzavo. Il fatto che il professore imponesse di disegnare mi creava una certa repulsione.
Perché era secondo certi schemi, certe regole, le proiezioni...
Tant’è che non disegnavo. Così, il professore era convinto che non sapessi disegnare. Invece, al termine della terza media, disse: "Fate un disegno a vostro piacere", e io improvvisai quello che avevo in mente, facendolo con tutta la voglia di disegnare. Quando il professore lo vide, non fu convinto che lo avessi realizzato io e disse: "Chi te l’ha fatto? Ma allora sai disegnare!". "Certo", risposi io. E lui: "E perché, per tutto l’anno, non hai fatto niente?". E io: "Perché voi dicevate di fare una bottiglia, io desideravo fare un paesaggio". Così, in terza media, ho iniziato a dipingere e disegnare.
Ma Le dico come è nata la passione per il disegno e la pittura. A Bacoli, c’era un pittore, un bravo artista, legato a una vecchia tradizione pittorica. Qualche volta, lo incrociavo per strada. Era un artista autentico, perché interpretava il vero in maniera mirabile. Apriva la cassetta e rimaneva lì due ore, a dipingere. I miei amici, dopo dieci minuti, andavano via, io stavo a osservarlo. La cassetta, i colori sulla tavolozza suscitavano in me una grande emozione, come quando, da bambini, ci facevano scegliere i cioccolatini.
Lei era alle elementari o alle medie?
Facevo la prima media, potevo avere dodici o tredici anni.
Come si chiamava il pittore?
Gennaro Massa, un professore del luogo, che ha dipinto belle cose. I suoi colori mi emozionavano, e capii allora che la mia passione per la pittura era forte. Ho incominciato così a scarabocchiare.
[...]
Mentre il docente di disegno delle medie e poi del liceo era solo un tecnico, non era un artista. Dopo il liceo, che cosa ha fatto?
M’iscrissi all’Università di Napoli, alla facoltà di scienze geologiche. Avevo quasi completato il corso, mi mancavano due o tre esami. Ma non volevo aspettare, pensavo di fare tardi, dovevo assolutamente dedicarmi alla pittura. Quindi abbandonai l’università.
Infatti, Dino Buzzati, nel suo testo, La chiama "giovane geologo napoletano". Siamo nel 1969.
Avevo ventiquattro anni, quando ho abbandonato l’università per dedicarmi esclusivamente all’arte, alla pittura. In quel periodo, la mia ambizione era dipingere, esclusivamente dipingere, e realizzare tutte le mie cose attraverso la pittura. Volevo, dalla pittura, trarre tutto, fare di una passione un motivo di lavoro.
M’interrogo anche su questa geologia.
Perché ho scelto geologia? Perché non ero molto convinto di poter fare studi scientifici in maniera fortemente razionale. Quindi, cercai di trovare una facoltà che, in qualche modo, desse una libertà anche all’interpretazione personale. Ero convinto che nella geologia e nello studio della terra non tutto fosse perfettamente e scientificamente spiegato, ma che ci fossero l’intuizione e la ricerca. Pensai che questa facoltà potesse, in qualche modo, essermi affine [...] la facoltà più congeniale al mio modo di vedere le cose. Avevo intrapreso la pittura in maniera forte e continuativa. Dedicavo più tempo alla pittura che allo studio.
Fin dal primo anno?
Dipingevo molto già dal liceo classico. Avevo iniziato a fare mostre e avevo avuto consensi da alcuni critici come Paolo Ricci, a Napoli, il quale, già quando avevo sedici-diciassette anni, aveva scritto note molto positive sulla mia pittura, anche perché affrontavo tele di dimensioni molto grandi. Ricci vide in me una grande voglia di esprimermi attraverso la pittura e scrisse sull’"Unità", credo nel 1955, note molto incoraggianti. Quindi, avevo già avuto qualche consenso. E, allora, pensai: perché perdere tempo, facendo altre cose, nelle quali non credo e che non finirò mai? Così, decisi di dedicarmi esclusivamente alla pittura.
Da lì iniziai il mio itinerario.
Ha incontrato, poi, altri artisti, qualche maestro?
Sì, secondo me, la svolta fondamentale, sopra tutto per farmi capire l’arte che esisteva nel mondo, non solo nella provincia di Napoli, è stata la presenza di un maestro, Guido Tatafiore, professore all’Accademia di Napoli, persona amabile, uomo intelligentissimo, ma, sopra tutto, un grande artista. [...] Fu un incontro importantissimo.
Casuale…
… casuale, ma molto importante. Era una persona molto generosa, un vero artista. Sopra tutto era un artista di avanguardia. Era uno dei promulgatori, nel 1955, dell’arte astratta a Napoli. Fece capire a me e a qualche altro giovane che la pittura non era soltanto la rappresentazione delle cose.
[...]
Quindi, dopo Gennaro Massa, il vero maestro è stato lui, colui che Le aveva dato la tecnica.
Sì, mi aveva aperto gli occhi alla pittura.
Che non è poco, la tavolozza, con i colori. Però, già negli anni sessanta, incominciano i viaggi.
Negli anni sessanta, incomincio a girare l’Italia, i vari musei.
Beh, già a Napoli, c’è Capodimonte.
Ma anche i musei di Milano, Roma, la Galleria d’Arte Moderna; incomincio a seguire le mostre che avvengono in Italia.
C’è l’incontro con qualche altro artista?
Certo, molti di quel periodo, a Milano.
Con qualcuno in particolare?
In particolare no, incontri più che altro occasionali. Ho iniziato il mio itinerario artistico facendo mostre e partecipando a concorsi. Quando, nel 1967, ho realizzato la mia prima mostra al Maschio Angioino di Napoli, avevo timore di presentarmi al pubblico. Avevo realizzato un bel gruppo di opere. Le aveva viste uno scultore napoletano, Luigi Ciccone, presidente dell’UCAI, l’Unione Artisti Cattolici Italiani, che aveva sede al Maschio Angioino. "Perché non fai una mostra, sono stupendi", aveva detto. Si affezionò molto a questa mia pittura espressionista. Pur dipingendo il paesaggio flegreo, le opere erano cariche di pathos e molto gestuali nella loro realizzazione. In quell’occasione, mi scoprì il critico e storico dell’arte Piero Girace, che scriveva su "Roma" ed era amico di tanti artisti italiani, amico di De Chirico, amico di Guttuso. Quando vide la mostra ne rimase entusiasta e m’inserì in un gruppo che egli aveva formato, "Tradizione e realtà". [...]
Napoli, Caracas, Milano. Poi, arrivano gli anni settanta.
E altre mostre. Intanto, a Caracas ci fu un appuntamento biennale. Ogni due anni, ho ripetuto le mostre. Complessivamente, dieci personali a Caracas.
[...]
Veniamo a un’epoca più recente: c’è stato il Palazzo dei Diamanti a Ferrara, San Michele a Ripa a Roma, poi San Marino.
Nella Repubblica di San Marino vinsi anche un premio. Poi, Lecco, Bergamo, Foggia, Catania.
E poi, noi abbiamo organizzato la mostra a Parigi.
La grande mostra alla galleria Paris Art Center, e quella che abbiamo fatto, sempre insieme, a Roma, a San Michele a Ripa. Quella è stata una grande mostra!
Senza dubbio. Poi, Antibes.
Al museo di Antibes.
E a Ginevra.
Sì, una bella mostra anche a Ginevra. Poi, nel 1994, c’è stato anche un contatto più diretto con New York [...] nel 1994, sono stato invitato da una galleria di New York a Soho, nello Spazio Italia Gallery [...] La mostra fu importante, perché mi aprì al mercato americano. Poi, l’abbiamo ripetuta nel 1997, sempre nella stessa galleria, ancora con grande successo.
[...]
Ci sono molti italiani?
Magari italiani di passaggio, e molti residenti. Dal 1998, lavoro con questa galleria di San Francisco con grandi risultati.
Quindi, per quanto riguarda il viaggio e l’itinerario artistico, c’è stata una fase astratta e un po’ informale.
Sì, pur essendo stato un pittore figurativo, influenzato molto dal paesaggio flegreo e dal paesaggio campano per un trentennio, ho interpretato il paesaggio secondo una mia visione. [...] Le cose, le osservavo e le vedevo in una luce sempre carica di eventi.
Iperimpressionista.
Iperimpressionista e anche espressionista, gestuale, molto forte. In quel periodo, le mie opere erano guardate con diffidenza dal pubblico campano, ancora legato a una tradizione pittorica del primo novecento, molto figurativa, molto oleografica.
C’era una Sua specificità. C’era sempre l’astrazione.
Certo, la lezione cubista non era venuta meno. Era, comunque, presente.
Un processo di astrazione c’era sempre.
Questo periodo rimane molto significativo nella mia pittura per questo paesaggio flegreo, realizzato con influenze espressioniste e cubiste, ma con una mia particolare autenticità, una mia visione delle cose. Ancora oggi è un periodo significativo. E, così, l’ho portato avanti per molti anni. La svolta è avvenuta negli ann 1988-90, e Lei ha seguito questo percorso: il modo cubista mi aveva consentito di realizzare le cose secondo volumi, poi, negli anni novanta, questi volumi si sono dissolti, per cui c’è stato quasi un ritorno al postimpressionismo. La forma si dissolveva. È stato un passaggio molto significativo, perché nel dissolversi, la forma...
... si dissolveva apparentemente.
… apparentemente, avveniva che la forma cubista si dissolveva. Con il postimpressionismo sembrava di fare un passo indietro e, invece, non è stato così. Da quel momento in poi, le cose sono state guardate in maniera completamente diversa.
[...]
Nello stesso tempo, il Suo non è l’informale degli anni cinquanta, che c’è stato in Italia. Lei non ha aderito alla pop art negli anni sessanta. E nemmeno ha partecipato al concettualismo degli anni settanta né al riflusso degli anni ottanta e tantomeno alla new age degli anni novanta.
Diciamo che sono stato fuori tempo.
Ha seguito, in modo rigoroso, la specificità del Suo itinerario.
Con l’esperienza acquisita, con la professionalità, avrei potuto, studiando la cosa a tavolino, essere uno dei pittori dell’avanguardia. Fare le cose che facevano gli altri. Invece, ho scelto di dipingere per divertirmi. Per il piacere [...] E forse, qualche volta, sono stato penalizzato, perché sono rimasto fuori dalle grandi mostre di tendenza. Purtroppo, uno scotto si paga. Però, oggi sono convinto di essere un pittore, che dipinge secondo una sua originalità.
Assolutamente. Quello che io noto è la costanza [...] È sempre un processo di astrazione, è sempre il paesaggio di Bacoli, che arriva a scrittura. Sempre più una scrittura. E non c’è nessuna rottura, in queste fasi. Invece, noto la costanza. Fra la struttura delle ultime icone e le opere degli anni cinquanta, non siamo lontani.
Anzi, questo raffronto l’ho fatto e lo stanno facendo molti. Fra le mie opere degli anni settanta e quelle di oggi, il passaggio è brevissimo.
E anche degli anni cinquanta.
Anche degli anni cinquanta, è vero. Probabilmente ci sono state influenze di varia natura, nel corso degli anni…
[...]
L’icona, che cos’è? È la pittura come scrittura, perché quella di Napoli è una grande civiltà. L’avanguardia americana e l’avanguardia europea non possono ritenersene la fonte. C’è una grande civiltà, che è quella di Napoli: si tratta di accogliere questa scommessa dando un contributo a questa civiltà, si tratta di assumerla e di andare oltre, proponendola, ancora, in un altro modo. C’è anche una lettura di Napoli, attraverso l’icona, ma quando dico Napoli, intendo dire la Campania.
Le mie icone partono dalla Campania, dalla zona flegrea, da Cuma. Ma credo che affrontino problematiche e atmosfere che si possono trovare in tutto il mondo.
[...]
L’icona è l’icona del Mediterraneo. Il Mediterraneo non è un mare. Ormai dire "il Mediterraneo" è come dire il pianeta. È una cultura.
Cultura e arte.
Non è un mare, ma una cultura, un modo di vita, una tradizione e un’arte.
[...]
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