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Fabiola Giancotti intervista Roberto Panichi

Armando Verdiglione intervista Roberto Panichi
(estratto)

La Sua famiglia è toscana. Anche il nonno materno, il nonno paterno...

Sì. Tutti.

Cosa faceva il nonno paterno?

Il nonno paterno era un ispettore del lavoro.

E Suo papà?

Anche lui, all'inizio, fece pratica nel campo dell'ispettorato del lavoro in varie città, poi alla società Edison, dove conobbe un ingegnere, che lo prese a ben volere e lo portò con sé in Toscana. Finalmente ritornava a Firenze. Per lui era una cosa ottimale, perché le radici delle famiglie paterna e materna sono in Toscana, in modo particolare nella Versilia. I miei genitori hanno radici profonde nella Versilia. Pietrasanta e i luoghi circostanti sono tipici delle famiglie Marchi e Panichi.

Come si chiamava il nonno paterno?

Il nonno paterno si chiamava Ernesto. E Leonardo quello materno.

E il padre?

Silvano. Mia madre: Maria Antonietta. Tra le due famiglie, indubbiamente, la più interessante è quella materna.

Però, chiaramente, per Lei ha un'importanza notevole anche quella paterna. Per la Sua opera.

Sì, per la mia opera. Io sono nato a Cuneo nel 1937, ma ho vissuto un anno in quella città, che, pertanto, non conosco. Poi, fui portato a Firenze e la mia vita si è svolta in Versilia, meno il periodo della guerra, quando, al seguito di una mia zia, andammo al nord, nelle vicinanze di Parma.

In quale periodo?

Nel periodo più tragico. Nel 1944, i tedeschi distrussero la villa materna, la villa di casa Marchi, dove avevano insediato il loro quartiere generale. Prima di ritirarsi definitivamente, la fecero saltare, con sette carri di esplosivo. Era una villa del seicento, originariamente una casa di caccia. Era in una zona amenissima. Oggi, purtroppo, anch'essa semidistrutta.

Quindi, siete rimasti nei pressi di Parma.

Alcuni anni della mia infanzia. Due anni o tre. Come sfollati. I tedeschi ci caricarono su un camion. E ci portarono lì.

I tedeschi non facevano questo sistematicamente.

Non era sistematico, ma io penso fosse nella logica delle cose. I tedeschi che si ritiravano, come idea strategica, lasciavano le popolazioni nel posto da cui si ritiravano o le mandavano al nord, quando era necessario.

Quindi, c'era un criterio...

Io penso ci fosse anche un criterio. Ma devo ricordare un fatto importante. I cugini Marchi, da parte di mia madre, erano stati entrambi volontari di guerra, mia zia aveva ricoperto un incarico di partito.

Dunque, c'era qualche ragione.

Sì, c'erano ragioni per cui queste persone dovessero recarsi al nord, ma non mio padre o mia madre, che non c'entravano.

Quindi, Lei, per un anno è stato a Cuneo, poi è andato a Firenze, poi per un paio di anni vicino a Parma.

Dove vissi un'avventura singolarissima. A quell'età, ero bambino, mi trovai, insieme con un gruppo di cittadini arrestati, su un camion di tedeschi, che ci volevano estradare e la ragione era banale: sembra che qualcuno avesse rubato qualcosa, i tedeschi fecero una retata e presero anche me. Fui salvato per fortuna dall'intervento di mio padre e di un suo amico, che conosceva il tedesco e che spiegò l'equivoco.

Il tedesco, Lei l'ha studiato?

Sì, l'ho studiato all'università. Sostenni un esame con Vittorio Santoli, noto germanista.

Mi sono chiesto se Lei avesse conosciuto, a Firenze, Ferruccio Masini.

L'ho conosciuto. Era germanista e filosofo. Uno degli intellettuali più noti degli anni sessanta, settanta.

E anche ottanta. Quindi, Lei ha studiato all'università. Praticamente, ha seguito l'impostazione classica.

Ho fatto il liceo classico.

Alle scuole statali?

Prima alle scuole statali, poi nel collegio degli Scolopi, che a quell'epoca aveva ancora, negli anni cinquanta, una struttura come quella dell'anteguerra. Poi, m'iscrissi alla facoltà di lettere.

Ha fatto il classico, che ha concluso quando?

Nel 1955-56. E mi laureai nel 1960.

A quell'epoca, si studiava il disegno già dalle medie, in seguito ha scelto di fare lettere classiche. Alle medie, ginnasio e liceo, quale era la lingua straniera che ha studiato?

Il francese.

Come avveniva in quell'epoca. Anch'io ho studiato francese.

Sostenni anche un esame o due all'università, c'era ancora Carlo Pellegrini, noto francesista, come Carlo Bo, del resto.

Carlo Bo, Lei l'ha conosciuto?

Ho avuto delle lettere da lui, a proposito di un mio ritratto fatto a Alessandro Ronconi, il latinista, con cui mi laureai a Firenze, in lettere classiche con una tesi sulle influenze lucreziane in Prudenzio, uno dei maggiori poeti della latinità cristiana, vissuto nel IV-V sec., spagnolo.

Torniamo al periodo anteriore. Dove ha fatto le elementari?

Le elementari, le ho fatte, un po' a Pietrasanta, un po' sui monti sopra Seravezza, a Fabiano, dove io passai un paio di anni o tre come sfollato, in parte a Parma, poi a Pietrasanta di nuovo, infine a Firenze. Le medie, le frequentai per un anno alla statale, poi passai agli Scolopi. Quando io ero alla scuola media, ero estremamente vivace.

Vivace, per quanto riguarda quella materia che all'epoca si chiamava condotta?

Sì, ero un ribelle. Tant'è vero che, quand'ero agli Scolopi... Ribelle perché irrequieto o ribelle su questioni speciali? Ero ribelle non solo per l'irrequietezza tipica di tutti i ragazzi sani e esuberanti, ma forse perché ero anche un contestatore.

Contestatore alle medie è un po'...

Un po' in anticipo, dice? Ma era naturale, in un individuo come me. Ero un po' portato alla contrapposizione...

Perché era andato dagli Scolopi?

Mi mandarono per darmi una disciplina. E a quell'epoca, l'istituto degli Scolopi poteva garantire la disciplina.

Ma chi voleva darle una disciplina?

I miei genitori, entrambi, sulla base degli effetti, che avevano sperimentato nella scuola media statale, dove evidentemente io non mi trovavo bene.

Dagli Scolopi quanto tempo è rimasto?

Fino al Liceo, sostenni la maturità, dove ebbi fra l'altro come professore, per la filosofia, padre Balducci, che Lei di nome avrà conosciuto.

Io l'ho conosciuto di persona. Padre Balducci ha presentato una volta a Firenze il mio libro dal titolo Dio, insieme con Baget Bozzo e insieme con Giorgio Spini.

Un altro mio maestro, sempre in filosofia fu anche Angelo Sciuoletto, che in seguito fu docente a Parma.

Quindi, ha avuto grandi maestri, sia al liceo sia all'università. Chi c'era come ellenista?

C'era Alessandro Setti, che era un ottimo docente. Ricordo anche Giulio Giannelli, che era uno storico, poi c'era Santoli per la germanistica, Gianfranco Contini, Elio Cantimori, G. Pugliese Carratelli.

Tutti nomi notissimi. E per la storia dell'arte?

Giuseppe De Robertis per la letteratura italiana e Roberto Longhi per la storia dell'arte, con lui feci un esame. Nel periodo in cui c'ero io all'università, c'era una rosa di grandi maestri.

Autori di numerosi libri, e tutti noi abbiamo letto e studiato su questi libri. Quindi Lei, la tesi, l'aveva fatta su questo argomento.

Sull'influenza lucreziana in Prudenzio.

Lucrezio è una materia molto complessa. Perché c'è un equivoco. Viene presentato come greco, come epicureo, ma egli non è greco, è profondamente latino. È la poesia latina, la Sua. Non è sul filone greco. È poesia e diritto. E altro ancora.

Tutta la mia vita è basata sulla contraddittorietà. Ho fatto studi filologici. Però, non mi sentivo portato, per la ricchezza e l'esuberanza dei miei interessi, a fare soltanto il filologo.

Gli Scolopi avevano una biblioteca?

Sì, naturale.

La Sua irrequietezza, la Sua inquietudine, La portavano a leggere anche altre cose?

Leggevo tutto quello che mi capitava.

Quello che Lei trovava nella biblioteca? Quando avevo 17-18 anni, e poi 20, quando frequentavo l'università, tutto quello che m'interessava, lo trovavo in una libreria o anche nella biblioteca.

Ma Lei, dagli Scolopi, era interno o esterno?

Ero esterno, andavo la mattina e ritornavo la sera.

Era un collegio per esterni?

C'erano anche gl'interni. E c'erano anche i semiconvittori.

Non era solo per coloro che sarebbero dovuti divenire Scolopi.

No. Per questi credo ci fossero altri collegi.

In questa biblioteca degli Scolopi, c'erano i libri messi all'indice?

Sì. Io credo che qualcuno ci fosse e che questa distinzione così precisa non fosse osservata. Oltre a padre Balducci, c'era un certo padre Cecchini che insegnava letteratura italiana e latina e che era un uomo di notevole apertura intellettuale. Poi, c'era anche padre Tommaselli, che era anche poeta.

E il Suo interesse per l'arte?

Le dirò che io incominciai con una sensibilità accentuatamente musicale. Quando ero adolescente, ginnasio-liceo, avevo una spiccata tendenza alla scrittura e anche alla musica.

Aveva un diario? Scrivevo.

Scrivevo poesie, racconti, che poi ho condensato, quando avevo 23-24 anni, in un libro di racconti, che, però, è inedito, le cui pagine hanno l'acerbità di un ragazzo di quell'età. Scrivevo poesie. Scrivevo qualche testo teatrale. Ma sono tutte cose che fanno parte dell'archeologia letteraria di un individuo. […]


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