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I cacciatori delle selve edeniche

I cacciatori delle
selve edeniche

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Pantera nell'Eden

Pantera nell'Eden

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Le foglie vive

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tecnica mista su tela,
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Finestra chiara con frutta e figure

Finestra chiara con
frutta e figure

olio su tela, cm 150x100
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Bambi

Bambi

tempera su tela,
cm 60x80
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Intervista a Saverio Ungheri

di Fabiola Giancotti (estratto)

FABIOLA GIANCOTTI Saverio Ungheri, artista e pittore. Come ha capito che questa era la sua strada?
SAVERIO UNGHERI L’ho capito da bambino. Sono un erede d’arte. Mio nonno era pittore. Ma non ho di lui molti ricordi, perché credo sia morto quando avevo cinque o sei anni. Ricordo, però, che, quando tornava la sera dalla campagna, mi metteva sulla sella del suo cavallo e mi faceva fare un giro nella piazza di Rizziconi, il paese dove sono nato.
Era il nonno paterno o materno?
Materno. In seguito, molti anni dopo, ho scoperto un’intera soffitta piena di tele e di disegni di mio nonno.
Come si chiamava?
Francesco Carbone. La famiglia di mio padre, gli Ungheri, invece, pare che risalga al Settecento.
In Calabria?
Sempre in Calabria, sì. Non ho notizie precise. C’è soltanto la memoria di tre generazioni: il nonno, il bisnonno e basta.
Rispetto ai nonni, ha qualche aneddoto che le è stato raccontato dai suoi genitori?
Non in particolare. Mi raccontavano che mio nonno materno era un mecenate, oltre a essere un pittore aveva portato un cinema in Calabria, il primo in quella zona tirrenica, vicino a Gioia Tauro, fra Taurianova e Cittanova. Riuniva nella piazza i paesani e raccontava loro varie storie, con fotografie e film che portava
da Parigi.
Perché proprio da Parigi?
Non lo so. So che andò a Parigi. E mia nonna, quando il nonno partiva per Parigi, nella valigia gli metteva una tegola (che si usava riscaldare e mettere sotto i piedi nel letto quando si andava a dormire — non avevamo termosifoni allora; nelle case si usavano i bracieri in ogni stanza e venivano preparati ciascuna sera).
Mi ricordo di questa tegola che mio nonno si portava nella valigia.
E nella soffitta cosa ha trovato?
Ho trovato armadi e comò pieni di documenti, di bozzetti, di disegni, di schizzi che io ho conservato. Nella mia casa di Roma ho esposto qualche suo dipinto a olio. Mio nonno era allievo di Scerbo, un pittore allora famoso in Calabria, di Cittanova, un paese vicino.
Il nonno faceva solo ritratti?
Faceva ritratti e faceva fotografie. Gl’ingrandimenti delle fotografie, li faceva a mano, a carboncino. Abbiamo qualcosa ancora. Il suo autoritratto è grandissimo.
È una figura intera con la sua catena, il suo taschino con l'orologio, i baffoni. Nel paese tutti ricordavano quest'uomo. Come lo chiamavano? Lo ricordano come
"u' professore", il professore, anche se non aveva titoli di professore non aveva fatto l'università si era fatto una cultura artistica e era un iniziatore.
Di ogni cosa nuova, lui si proponeva come capofila. Per questo lo chiamavano "u' professore". E ciò suscitava certe invidie, perché in paese i personaggi erano in genere il medico, il prete e il farmacista.
Perché le faceva fare il giro intorno alla piazza?
Così. Come oggi si fa un giro in macchina, allora si faceva un giro sul cavallo del nonno. Era una maniera di usare il mezzo del nonno. Noi avevamo un termine dialettale, quando si stava a cavalluccio sull’asino o sul cavallo si diceva che si stava a cavatozza. Quando trovai le sue opere scoprii anche tutti i suoi attrezzi, cose per incidere, sgorbie, pennelli e colori, intere cassette di colori a olio, catalogati — tanti neri tanti rossi... —, credo di aver dipinto per otto, dieci anni.
E, secondo lei, da dove venivano questi attrezzi?
Li ho trovati in un tiretto. Lui li portava da fuori. Non li vendevano in zona. Ogni tanto partiva — mia nonna era tranquilla, serena — e qualcuno raccontava storie di lui con le ballerine, con le attrici. Gli piaceva molto il teatro... In famiglia era un uomo attivissimo, ma per i lavori e le faccende di casa e di campagna delegava mia nonna. Nella terra c’erano allora i coloni e i contadini, che ogni domenica venivano e portavano le primizie. La colonia era fatta così a quei tempi: la famiglia dava la terra e le cose speciali, per esempio i concimi; il colono metteva la manodopera, viveva sulla terra e, di quello che produceva, metà era nostro e metà suo. C’era la mezzadria, insomma, e era una cosa ambita, perché dava lavoro a molti.
E del nonno paterno non ricorda nulla?
No. Del nonno paterno, proprio niente. Del bisnonno, il padre di mio nonno, non mi hanno raccontato nulla, ma c’è ancora il suo busto al cimitero.
A questo busto si ferma tutta la documentazione dei miei avi. Ci saranno altre cose sparse nei paesi vicini, ma non ho mai approfondito la ricerca.
Sua mamma aveva un mito rispetto al padre?
Sì. Ancora da bambina, quando i contadini venivano a chiedere del nonno, lei rispondeva: "u' professore non c’è". Era una forma di rispetto, che c’era nella nostra famiglia.
E suo papà, invece, di che cosa si occupava?
Di mio papà, quello che so è che era nell’arma dei carabinieri. All’epoca, quando si sposò, negli anni venti, il suo fu un matrimonio combinato — allora si combinavano i matrimoni. Le nostre nonne stavano dietro le tapparelle, non potevano affacciarsi sul balcone, esporsi, far vedere il loro viso.
Nella famiglia di papà erano due i fratelli. Allora, nelle famiglie, il primo figlio veniva mantenuto agli studi, finché prendeva una laurea; gli altri figli, che venivano dopo, dovevano interessarsi delle proprietà, che poi venivano divise fra loro. Non è che a quel figlio cui si dava la laurea, non toccasse la sua parte di proprietà, gli toccava lo stesso; però, c’era questa abitudine. Anche le donne venivano dotate. Nella famiglia, mia madre ha allevato anche una bambina orfana, e ricordo che è stata indotata; le è stata data una casa, un corredo e una piccola dote in denaro per affrontare i primi due anni di matrimonio.
Lei dice che, di suo papà, ha questi ricordi perché l’ha perso da piccolo?
No. Mio padre è morto d’infarto a 83 anni.
Quanti figli siete?
Noi eravamo sei figli, una sola femmina. Cinque maschi e una femmina. Io sono il terzo, dopo la femmina. Il primo è quello che è stato mantenuto agli studi e che ha preferito fare la carriera militare — si è congedato da generale, da poco tempo; la seconda era la femmina, mia sorella, che vive a Roma; il terzo sono io.
Degli altri, stranamente i più piccoli, due sono morti per disturbi cardiaci, per infarto, come si dice.
In famiglia, come viveva con i fratelli?
Oggi i fratelli litigano. Noi rispettavamo i fratelli più grandi. Prima di tutto, bisognava ubbidire ai genitori, poi agli zii, poi ai fratelli maggiori. C’era questa gerarchia nelle nostre famiglie. Se il mio fratello maggiore mi diceva: “Va’ a prendermi quel libro”, io dovevo andare. Così come io potevo permettermi di dirlo al fratello minore... Noi abbiamo studiato tutti, non avevamo bisogno di lavorare. Se da una parte ci aiutavamo l’un l’altro, dall’altra c’era un sacro rispetto dell’anzianità.
Il fratello maggiore aveva diritto all’obbedienza, come i genitori.
Fino a che età lei è rimasto in Calabria?
Sono rimasto fino ai diciotto anni. Non vedevo l’ora di scappare dal paese. E, allora, appena mi è arrivata la cartolina precetto per fare il militare, sono partito.
E le scuole, dove le ha fatte?
Le scuole le ho fatte in Calabria, a Palmi; il ginnasio a Reggio Calabria e il liceo classico a Cittanova. Seguivo il mio fratello maggiore. I miei genitori ci hanno preso un appartamentino di due stanze con la cucina e con la persona di servizio, questa persona, mi ricordo, era la comare Maria, una donnetta piccola, sempre vecchia. Me la ricordo vecchia. Una vecchietta tanto caruccia, tanto disponibile, che ci faceva tutto: cucinava, lavava, accudiva alla casa...
La chiamavamo comare, perché aveva condotto a battesimo, portato in braccio, tutti noi. Viveva a casa nostra e anche a lei si è dato uno stipendio e le si è comprata la casetta, che poi ha lasciato ai suoi nipoti. Era un mondo diverso, forse migliore del nostro.
E lei, come mai non vedeva l’ora di scappare?
Come tutti i giovani.
Suo fratello era già andato via?
Sì, mio fratello era nell’Accademia militare, poi prese il comando di tenenza e, per questo, andava sempre in una città diversa.
E la sorella ha studiato?
No, mia sorella non ha studiato, perché aveva diritto allo studio il primo maschio e, eventualmente, gli altri maschi.
Terminato il liceo, è andato a Roma a fare il militare e si è iscritto all’Accademia.
Mi sono iscritto all’Accademia, ma prima ho preso la maturità artistica da esterno. I genitori mi davano un mensile, per pagare le varie spese.
Poi, è rimasto a Roma. Due anni di militare.
E durante il militare ho conosciuto lei, Teresa, mia moglie.
Si è preparato da esterno per gli esami di ammissione?
Ci siamo preparati fuori, frequentando a pagamento qualche corso di specializzazione.
E vi siete iscritti all’Accademia, con quale indirizzo?
Tutt’e due scenografia. Io l’ho portata avanti per due o tre anni, poi l’ho sospesa perché ci siamo sposati. Dopo, ho incominciato a lavorare come disegnatore presso uno studio di architetti.
Aveva terminato l’Accademia, oppure l’ha lasciata del tutto?
Per andare a lavorare, ho lasciato l’Accademia.
Che non ha più proseguito.
No, non ho più proseguito anche perché la trovavo inutile.
Com’era organizzata, all’epoca, l’Accademia a Roma? Che anni erano?
Erano gli anni 1947-1948.
Chi c’era come insegnante?
Sante Monachesi, Walter Lazzaro, Peppino Piccolo che era scenografo. A un certo punto, ho pensato d’insegnare disegno nel liceo artistico. Ho fatto domanda e ho presentato varie fotografie delle opere e delle mostre che avevo fatto.
Cosa aveva fatto fino a quel periodo?
Avevo già fatto alcune mostre.
Dopo aver scoperto che suo nonno materno era un artista, lei ha proseguito tenendo conto di questa eredità?
No, non la sentivo proprio così. Ho fatto gli studi classici per imposizione. E ringrazio chi mi ha fatto fare gli studi classici, altrimenti adesso non sarei qui. Ringrazio, perché ho fatto studi di filosofia, di letteratura, di greco e di latino, sono cose importanti, sono le radici della nostra lingua, della nostra cultura.
Qual è quindi la connessione?
Al paese, a Rizziconi, dove sono nato, mi piaceva dipingere. Allora, facevo paesaggi, nature morte, mi piaceva fare madonnine. Quando l’arciprete del paese ha scoperto queste madonnine, me le ha sequestrate. Lui le offriva all’asta in chiesa, oppure raccoglieva la riffa e le metteva in sorteggio: tutti i soldi che venivano da questa riffa andavano alla chiesa e la madonnina passava nella casa di chi vinceva. Sono, questi, aneddoti dell’infanzia e credo di essere stato apprezzato
più di quanto avessi meritato. Lo stesso arciprete voleva che restaurassi quadri del seicento, ma con dignità mi sono rifiutato. In seguito, ho proseguito
a fare sculture e pitture di soggetto religioso, ho fatto portali con bassorilievi per varie chiese, tra cui quelle di Rizziconi, di Taurianova, di Cassino.
Pittura, scultura, restauro: ha cominciato così...
La mia terra mi ha stimolato in tutto questo. Mi sentivo già artista: e la specializzazione che ho fatto al liceo artistico e in Accademia è stata valida, perché mi sentivo portato.
Quali opere ha presentato per l’iscrizione all’Accademia?
Erano disegni, ritratti a olio, ritratti a matita — qualcosa mi è rimasto, a matita, a penna —, centinaia e centinaia di cose.
Quali maestri ha frequentato?
Il maestro Galli era specialista per la preparazione dei giovani agli studi di arte, per entrare nell’Accademia, per l’abilitazione all’insegnamento. Con lui facevamo
il nudo, il ritratto a matita, a acquarello, e lavoravamo con molta serietà. Oggi i giovani non sanno che cosa significa disegnare: quando si disegna una cosa, un oggetto, un vaso panciuto, un piatto, un nudo...
Lei si era esercitato...
Avevo studiato i meccanismi, la tecnica, le proporzioni, l’anatomia...
Quindi i suoi studi di arte, propriamente, incominciano a Roma.
Appena arrivato a Roma, tra l’Accademia e il liceo artistico ho notato una grossa differenza. Allora, mi sono sentito costretto a fare ricorso a lezioni private per studiare veramente.
Il disegno.
L’anatomia, anzitutto. Ogni muscolo doveva stare al posto suo, non si potevano mettere i muscoli così, dove capitava. Bisognava sapere dove nasce un muscolo, dove finisce. L’anatomia è una cosa importante per l’insegnamento del disegno.
E ha fatto l’insegnante di disegno.
Sono tornato in Accademia come insegnante di disegno. Al liceo artistico avevo già fatto qualche anno come insegnante di ornato. Poi, consigliato male, ho vinto concorsi e ho avuto la cattedra fissa alle scuole medie nazionali. Allora i licei artistici dipendevano da un reparto speciale d’istruzione artistica, che era stato creato negli ultimi anni e che ancora non aveva basi solide. Si era insicuri sull’avvenire degli studi artistici.
Non pensava di poter produrre opere, di potere venderle e quindi vivere solo di quello?
Non l’ho mai pensato.
Per quale motivo?
Io ho pensato di produrre, di fare opere, per me. Per questo ho dovuto provvedere al mio mantenimento, insegnando. Per essere libero dal bisogno.
Ero convinto che l’arte, per essere libera, dovesse essere libera dal bisogno. Se devo fare il quadruccio per sbarcare il lunario, lo faccio, lo vendo: posso fare numero, ma non posso fare qualità. Per me, l’arte è la prima cosa e, dunque, la facevo solo per me stesso. Io dovevo essere felice di fare quell’opera.
Poi, se agli altri piaceva, bene, se non piaceva, restava lì. […]

L'intervista in versione integrale è disponibile nel libro "Saverio Ungheri, il bello della differenza", a cura di Fabiola Giancotti.

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