Marco Castellucci  
     
 

Il mestiere

di Paolo Vandin

Marco Castellucci: o della brevità della vita. Come ciascuno, Marco Castellucci non ha tempo. Non ha tempo per indugiare, per stare a pensarci, per ponderare, non ha tempo per i rimandi, per le remore, per le riserve, non ha tempo neppure per contenersi. Non c'è tempo per stare a nutrire il dubbio intorno a sé e all'Altro, quindi per stare a rappresentarsi e a rappresentare l'Altro nell'anfibologia animale circolare, per soppesare il positivo e il negativo di sé e dell'Altro, non c'è tempo per i buoni o cattivi rapporti. Non c'è tempo per l'approccio soggettivo, quindi passionale e paziente, ovvero patologico, alle cose. Nessuno ha tempo. Il tempo, più che per fare, è il tempo che interviene nel fare, traendo con sé la differenza e la varietà con cui le cose che si fanno si scrivono. Marco Castellucci. Il tempo dell'acquerello. E la lingua dell'acquerello è la lingua stessa delle cose, la lingua, con cui le cose, scrivendosi, si qualificano. Le cose, quindi, non come tali. Lingua della parola originaria. Scrittura della parola originaria. Scrittura dell'esperienza. Scrittura del viaggio intellettuale. Brevità della scrittura, che conclude all'aforisma e alla cifra. La brevità man mano.

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Leggiamo il paesaggio di Marco Castellucci: quei pochi tratti, che bastano alla redazione di ciascuna opera, risultano frutto dell'intero itinerario. Ecco la brevità. Tutt'altro che un accorciamento o un aggiustamento, tutt'altro che il tagliare corto e grosso. Tutt'altro che la facile e sempre più facile contentatura, di cui si compiace l'epoca. Tutt'altro che applicare il principio del minimo sforzo. Niente minimalismo. Brevità diplomatica. Di quei tratti, ciò che risalta è infatti la precisione e l'esattezza. E importa che Marco Castellucci non lascia mai le cose senza redigerle. Non passa sopra a nessun dettaglio. Non accetta l'insiemizzazione, che ha il banale come sua conseguenza. E dalla brevità risalta pure l'infinito della parola. Ciascun aforisma esige l'infinito.

Ciascun paesaggio procede dal suo cielo. Soggettivo il cielo? O tutto chiaro o tutto scuro? Come idealizzare il chiaro o il positivo o l'alto? E come economizzare lo scuro o il negativo o il basso? Come procedere dalla chiusura? Marco Castellucci è acquerellista dei cieli d'Italia. Incelestiale il cielo, il modo dell'apertura, l'inconciliabile tra il chiaro e lo scuro. E ciascun paesaggio ha la sua condizione nel colore della moneta, colore dello specchio, colore dello sguardo, colore della voce, inobiettivabile, imprendibile, sfuggente a qualsiasi demonizzazione. Il colore del sembiante è la condizione dell'ascolto, con cui giunge la luce, per ciascuna opera, e è anche condizione della scrittura della luce.

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L'acquerello di Marco Castellucci è il vero acquerello astratto. La realtà non ha bisogno di rappresentarsi né di illustrarsi. Non richiede una realtà sulla realtà. Vasilij Kandinskij ha ancora bisogno di mostrare, di dimostrare l'astrazione, ha bisogno che si veda, è vincolato al pregiudizio del credibile e del rispettabile. Nonostante la sua audacia. L'astratto di Marco Castellucci risente dell'ascolto, anziché della visione. Non può dispensarsi dall'ascolto. Marco Castellucci è pittore cattolico. Non soltanto artista del cielo e del paradiso e non soltanto imprenditore. Ma poeta e scrittore della propria impresa.

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(Estratto dal volume L'acquerello di Dio)

   
   
 
 
 

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