L'intervista
Armando Verdiglione intervista Marco Castellucci
Dove nascevi?
Nascevo a Bologna nel 1936. Per ciò sono già vecchio.
Ti senti vecchio?
No.
Allora perché dici che sei già vecchio?
Perché da un punto di vista anagrafico è così.
Tieni conto che il precedente intervistato ha novantotto anni...
Allora sono quasi un ragazzetto! Dicevo, sono nato a Bologna e, caso della sorte, in via Belle Arti, al portone vicino al liceo artistico Accademia di Belle Arti.
Hai subito avuto interesse per le arti?
L'ho sempre avuto. Già da bambino mia madre mi spingeva in questa direzione. Ho avuto zii e nonni che hanno sempre dipinto; uno dei fratelli di mio nonno materno era pittore di chiese, a Roma, dipingeva pale d'altare. Ci sono foto di lui insieme con Pio X.
Tu hai visto alcune di queste pale?
Le pale, non le ho mai viste. Ma, in casa, ho alcuni disegni e dipinti fatti da lui.
L'hai incontrato questo parente?
L'ho incontrato, ma ero bambino. Più che altro, l'ho consciuto attraverso il racconto di mia mamma. Mentre i genitori dicono: "Devi diventare ingegnere, devi diventare architetto", o cose del genere, stranamente a me dicevano: "Tu devi diventare un artista". È strano per il periodo: adesso, magari…
A che età tua madre ti avrebbe detto addirittura: "Tu devi diventare un artista"? Ti avrebbe dato questo compito?
Fin da bambino. Ho un fratello gemello – non te l'avevo mai detto prima – che non sa tracciare una linea, proprio nulla, manualmente. Io curo il giardino, cucino… Mio fratello, nulla.
Tua madre a te ha dato questo compito, e a tuo fratello che compito ha dato?
A mio fratello ha cercato di supplire magari dandogli di più. A me diceva: "Tu sei già dotato", allora seguiva un po' di più mio fratello. I miei disegni sono stati sempre conservati; mio padre, che era direttore del Credito Italiano di Bologna, li portava addirittura in ufficio, li teneva sotto il cristallo che si usava allora nelle scrivanie. Aveva tanti clienti, tra cui Giorgio Morandi, al quale fece vedere i miei disegni, chiedendo: "Cosa ne dice, professore? Cosa faccio fare a mio figlio?". Morandi rispose: "Portalo da me".
[...]
Sei andato avanti con il liceo artistico e l'accademia. I maestri sono stati quelli che hai detto [Cleto Tomba, Farpi Vignoli, Luigi Vignali]?
I maestri sono stati tanti, anche non conosciuti. Per esempio, il professore di scenografia era Antonio Natalini. A Bologna c'era una scuola che è stata definita "chiarismo bolognese", di cui hanno fatto parte persone anziane ancora viventi, per esempio, Giuseppe Gagliardi, Norma Mascellani, i cui quadri costano e sono anche molto belli.
Il chiarismo bolognese ha avuto un'influenza sul modo di dipingere di tante persone, anche se non è mai stato riconosciuto veramente. È appartenuto al chiarismo persino Virgilio Guidi; dopo, è tornato nella sua Venezia, ma ha mantenuto lo stesso stile di pittura del periodo in cui faceva il chiarismo: le sue vedute di Venezia, ripetute duemilatrecentotrentatré volte, hanno non il contenuto, ma la tecnica pittorica del chiarismo bolognese.
Quindi, c’è chi ti ha insegnato l'acquerello.
C’è chi mi ha insegnato l’acquerello, chi mi ha insegnato l’architettura, chi mi ha insegnato la scultura (Cleto Tomba).
Però, tu non hai fatto scultura.
Anche adesso ho fatto sculture. Non te le ho mai fatte vedere.
Ma il vero maestro per te chi è stato?
Vignali. Sono andato a trovarlo circa due mesi fa, e lui, che è stato presidente dell'Accademia di Belle Arti per quindici anni, insegnante per altri venticinque, cioè ha fatto quarant'anni tra insegnamento e direzione del liceo artistico Accademia di Belle Arti, mi ha abbracciato e mi ha detto: "Tu sei stato il migliore allievo che io abbia avuto". È una cosa che tengo nel cuore. Ha un mio acquerello, che ha messo vicino a un Picasso. Mi ha voluto sempre bene, c’è sempre stato un rapporto non soltanto da insegnante a allievo, ma da artista a artista e da persona a persona.
Hai considerato che il tuo avvenire sarebbe stato quello dell'arte?
Quando, facendo la strada, mano nella mano, con mio padre, qualcuno ci incontrava, diceva: Buongiorno, dottore! Che bel bambino! Cosa farai da grande?". Allora si usava questa frase, e di solito i bambini rispondevano: "Vorrei fare l'architetto, vorrei fare il pittore, io l'aviatore". Tutti sogni che quasi sempre non si avveravano. Io ho sempre detto che volevo fare l'artista, perché forse mia mamma mi aveva influenzato.
[...]
Perché hai prediletto l’acquerello rispetto a altre forme artistiche?
Forse ciascuno sceglie o gli capita di scegliere. Anche quando all'Accademia di Belle Arti facevo scenografia, mentre tutti usavano la tempera per le scenografie delle commedie o per le altre cose, io ero l'unico che le faceva con l'acquerello. La scenografia si fa con la tempera, l'acquerello è molto difficile, perché il bianco è la carta: se lo macchi, puoi stracciare tutto.
Hai citato il chiarismo perché ritieni che in qualche modo sia stato importante anche per te?
Sì, è stato importante, perché, se si guardano i miei acquerelli, per esempio quelli del 1990, ancora risentono del chiarismo bolognese: le lavature date all'acquerello, le forme che emergono dalla nebbia. Non credevo di essere così vincolato da qualcosa. Invece ero vincolato.
La prima mostra personale, nel 1988, è stata piuttosto tarda, quindi tu hai considerato sempre o quasi sempre l'attività artistica come un hobby, mentre l'attività principale è quella dell'impresa di distribuzione dei libri. A un certo punto, avviene questa prima mostra. Dov'è avvenuta?
È avvenuta in una libreria galleria di Bologna, in via Santo Stefano. Dove un tempo c'era la libreria Minerva, c'era una galleria con uno spazio sotterraneo, molto adatto a fare mostre. Vennero tanti altri artisti.
Chi?
Ora non ricordo. Ma mi telefonarono anche a casa: "Come fai a fare quegli effetti marmorizzati?". L'acquerello è bello perché ciascuno lo crea, ciascuno lo inventa. Io, poi, dipingo all'acquerello da sessant'anni: credo che in Italia non esista un artista che dipinge acquerelli da sessant'anni. I segreti, ciascuno se li tiene. È come per il cercatore di funghi o il pescatore: se gli chiedi dove ha trovato i funghi o dove ha pescato, non ti dirà il punto esatto. Ciascuno ha studiato, ha creato dei sistemi di pittura e non li rivela agli altri.
Delle tecniche?
Sì, anche delle tecniche.
Modi di pittura.
Per quanto riguarda l’acquerello, è una tecnica estremamente particolare, perché devi abituarti a ragionare come se fosse il negativo di una fotografia: devi partire dall'idea che devi capire quali sono i bianchi che devono rimanere, che non devi toccare, perché è la pagina bianca del tuo foglio. È proprio
un ragionamento, perché se sbagli… Alcune volte ho rifatto lo stesso acquerello dieci volte, dodici volte, e li ho stracciati tutti, perché basta che qualcosa vada di traverso, un colore sbagliato, e hai già finito: non lo puoi recuperare come con qualsiasi altra tecnica, con la tempera, con l’olio. Non parliamo, poi, degli acrilici: l'acrilico oggi è facilissimo.
Ma tu non usi l'acrilico.
Ho usato anche l'acrilico.
Gli acquerelli, li fai, quando hai un periodo di assenza dall'attività principale, perché il paesaggio che dipingi indica proprio questo.
Sì. Io ho una fortuna e una sfortuna: gli acquerelli li ho fatti per un'esigenza mia, cioè non devo vivere facendo gli acquerelli, non devo andare tutte le mattine nell'atelier con il problema di decidere cosa fare, non devo per forza dipingere. Per forza io non faccio nulla. Ciascun acquerello mio è un mio ricordo, è una mia fotografia dentro.
Cioè, tu dici che adesso, guardando un tuo acquerello, ti ricorda qualcosa. Ma l'acquerello non era un ricordo: tu lo dipingevi rispetto a qualcosa che stavi vivendo allora, rispetto a un paesaggio.
È come se uno tenesse su un cassettone una fotografia e, guardandola, dicesse: "Guarda com'ero felice! È stato un momento bello della mia vita".
Quindi, è il tuo modo di scrivere.
È il mio modo di scrivere. Ricordo che una volta, in una lezione che ho fatto ad alcuni ragazzi, dissi che la linea non esiste: la linea è la differenza tra due colori o tra due tonalità dello stesso colore. Oggi, sono pronto a dire il contrario. La linea è importantissima, la linea è importante per disegnare.
Cosa intendi per linea? La curva?
No, qualsiasi linea, dritta o curva.
Il disegno è importante per te: questo stai dicendo?
Prima, ero perseguitato dal rappresentare la realtà, e nella realtà la linea non esiste. Se guardi qualsiasi cosa qui dentro, vedi che non è fatta di linee. Cioè, la linea è data dalla diversità di colore oppure da due toni diversi di luce.
Sei mai stato tentato dalla scrittura?
I miei acquerelli sono la mia scrittura. Tu hai creato una tua scrittura, io ho creato la mia. La mia è fatta di colori, però è la stessa cosa. Anche oggi, moltissimi pittori dipingono facendo segni o ideogrammi. È difficile da spiegare, perché nella mia vita c’è stata una continua evoluzione, una continua trasformazione, sia nel modo di dipingere sia del pensiero di come dipingere. Sono combattuto tra la realtà e l'invenzione: dentro i miei acquerelli, oggi, c'è la realtà, ma c'è anche l'invenzione. L'invenzione è molto più difficile della realtà, perché la realtà è guardare fuori, l'invenzione è guardare dentro. Guardarsi dentro è difficilissimo.
[...]
(Estratto dal volume L'acquerello di Dio)
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