Il cielo di Michail K. Anikushin
di Armando Verdiglione
Alle dieci di un bel giorno di maggio 1992, arrivo dinanzi al cancello dello Smolnij. Saluto il diplomatico che mi attende per il nostro appuntamento con i responsabili del Comune e del Palazzo di Tauride. Il diplomatico va repentinamente verso un signore elegantissimo dal viso allegro, colorito, con qualcosa di angelico. Uno scultore. Un grandissimo scultore. Come può avere – così giovanile – settantacinque anni? "Italiano! Sono felicissimo che Lei sia italiano. Io sono stato in Italia!". Mi dà la sua carta da visita, scritta in cirillico. Michail Kostantinovič Anikushin. Notissimo. Anche a chi si trovi a passare per accedere al Comune.
Il giorno dopo vado a trovarlo nel suo atelier. Grandi alberi e rare case. Il taxi arriva davanti all’atelier. Fiori bellissimi e vari, un viottolo ci consente de arrivare alle porta. Un cane, grande e peloso, abbaia all’interno. La porta si spalanca. Abbraccio, come per antica amicizia. "Bellissimo!", dice in italiano all’indirizzo del nostro nuovo incontro. Anikushin è un ospite molto accogliente. Entriamo prima in una stanza dove, accanto alla scrivania, mi indica documenti dei suoi incontri con artisti di altri paesi, soffermandosi su quelli italiani; fotografie di opere monumentali, disegni paralleli o precedenti le sue sculture distribuite lungo circa quarantacinque anni.
Grandissima, con il suo commento, ciascuna delle cinquanta piccole sculture in bronzo riposte qua e là lungo la stanza dal soffitto altissimo. Un miracolo, ciascuna volta. Fasci di sole entrano dalle finestre elevate. Illuminano une parte delle sculture finissime, curate nel dettaglio, che costituiscono una storia, una vita, un itinerario artistico intellettuale unico, volto alla qualità, alla sua. Qualità dell’itinerario. Qualità dell’impresa di arte e d’invenzione. Gioco. Meraviglia. Percorso.
Entriamo in un’altra stanza. Enorme. Con tanta luce. Opere di varie misure. Alcune in bronzo. Altre gigantesche, in gesso. La base di quanto si trova esposto in Russia, in Europa centrale e occidentale, in Giappone. Nei musei. Nelle piazze. Nelle strade o in un’oasi fra gli alberi. Sculture del cielo. Verticali. Belle. Differenti. Varie. Anikushin e io, grazie a lui, ci troviamo in quest’altra vita, da lui creata, in quest’altro tempo, in cui si effettua in ciascuna scultura l’evento. Vero e proprio incontro. Questione di tono. Questione di piacere. Questione di verità. Verità effettuale.
Entriamo ancora in un’altra stanza. Altro stile. Altra struttura di statue grandi, di visi luminosi e tranquilli. Sono le opere di Maria, la moglie. Molto sono esposte in musei. Molto sono entrate nelle mostre. Alcune anche con quelle del marito. Maria arriva. Una giovialità straordinaria. Una semplicità antica e nuova. Maria enuncia una traccia essenziale della Russia, che in nessun angolo del globo possiamo perdere. Serenissima l’immagine. Una nota, ancora, all’internazionalismo di Anikushin. Un supplemento di luce. Di quella luce nelle sue sculture che risente d’infinito. E di paradiso. Il paradiso che Anikushin ha fabbricato noi non ce lo lasceremo sfuggire.
Ecco Michail ancora in apertura del congresso. Un mese dopo. Nell’incantevole sala del Palazzo di Tauride. Il cielo d’Europa. Lo invito subito a inaugurare il congresso. Lo faccio ciascun giorno. All’inizio di giornata. Silenzio di attenzione. Ascolto. Anikushin reca una nota della sua tranquillità, come del suo talento e del suo ingegno. Intelligenza. Chiede scusa, lui, per una “disfunzione elettrica” che blocca, al mattino, l’impianto di traduzione simultanea. Anikushin: l’indice del cielo d’Europa. Indice dell’apertura. Indice, quindi, anche di un altro scambio, di un altro dibattito, di un’altra via. Nessuna passione. Nessun pathos. Nessuna pena. ,Riuscita del congresso, che ha la chance d’includere, Anikushin nel suo dispositivo.
Al terzo giorno, Anikushin segue in video la produzione recente di “realtà virtuali”. Poi mi mostra i disegni che nel suo quaderno affiancano le pagine di appunti. E mi dice ridendo: “Ecco le realtà virtuali!”.
La vigilia del congresso sono andato nel suo atelier con i miei carissimi amici Pia e Carmine Benincasa. ,Una visita annunciata. Gli ho già parlato di loro, della ,stima che ho per loro. Anikushin è felicissimo. Un attore senza recitazione. E senza cerimoniale. Autentico e generoso. Attore di un’impresa di qualità.
E ancora, ai primi di luglio, un’altra visita nel suo atelier. Intervista per il film. Il racconto della sua vita artistica. Senza commozione. La storia sfocia nell’impresa. Audacia e scommessa. Senza eroismo. Senza scalate né sacrifici. Senza rivalità. E Maria: l’indice dell’infinibile squarcio della tenda, dell’introduzione alla gioia e alla felicità.
Anikushin, ogni tanto, dice qualche parola in italiano. Con ottima pronuncia. Ripete le denominazioni di monumenti di diverse città italiane. Il nostro incontro inaugura un’amicizia antica.
Già il primo viaggio in Italia del 1956 segna un’altra era nell’itinerario di Anikushin: disegni, appunti, annotazioni, confronti in quel periodo. Una stagione già annunciata nell’essenziale di quanto l’ha preceduta e insistente nelle aurore successive. Una lunga meditazione. Un’altra intensità. Tratti e ritratti. La ragione, temporale. La ragione pragmatica. Gli avvenimenti e i loro effetti, gli eventi. Ciascuna volta per l’altra scrittura. E per il suo compimento.
Ora, Anikushin viene in Italia con gioia. Quasi per un’altra alba. Ormai notissimo in ciascun angolo del pianeta. E non soltanto negli ambienti cosiddetti artistici. ,Niente marginalismo. Anikushin va verso quella ,.luce che consente d’intendere. Anikushin sublime. Viene in Italia quando il comunismo in Europa non sembra trionfante. Viene per il partito dell’arte e della cultura. Noi, uditori e lettori delle sue sculture e dei suoi disegni, siamo in grado di entrare in questa partita? Anikushin contribuisce a farci entrare. Anikushin, l’ospite irrappresentabile.
Perseguitato? Direttamente no. È vissuto e vive con ciò che è indispensabile per inventare, per fare arte, per giocare. Per interessarsi agli esperimenti pittorici della nipotina e per intendere qualche giovane drammaticamente pantoclasta, paragonandolo addirittura a sé giovane. Le circostanze, anche difficili e dolorose risultano favorevoli per lui. Egli le rende funzionali. Le rende propizie a quanto fa e ha da fare.
Come scrive Leonardo, resta l’opera, non il committente. Felice committenza quella di Anikushin per l’esito eccellente di cui siamo paghi. Anikushin, vero scultore del cielo.
Accademico, decorato per il suo lavoro di artista, Anikushin non dà nessun segno di compiacimento. Le sue opere nulla, infatti, hanno di barocco. Le sue opere: l’artificio nella sua eleganza, nella sua intelligenza, nella sua sobrietà. L’artificio fino alla semplicità. Anikushin, non ha bisogno di mettere in vista la sua bravura né di aggiungere artificio all’artificio. Egli non fa mostra e fregio di arte. E che arte! Arte di San Pietroburgo nel secondo rinascimento. Arte del cielo e dell’altra sua faccia, il paradiso. Arte dell’invisibile, dell’inudibile. Arte solenne e semplice. Arte dell’eccezione, dell’eccellenza e del tempo. Arte dell’apertura e dello squarcio. Un’altra civiltà.
Anikushin integra alla tradizione di San Pietroburgo elementi nuovi nello specifico di un’impresa inventiva e artistica. Una modernità ancora da esplorare, da leggere, da intendere nella sua qualità. Nella qualità, ove noi ci dirigiamo.
Moltissimi disegni, schizzi, statuine in vario materiale di Puškin, Čechov, Čaikovskij, del pittore Levitan. Monumenti per il compositore Glier, per l’attore Cerkasov, per il chirurgo Kuprianov, per il geografo Voejkov, per il fisiologo Becherev, per Joffe e molti altri.
Nel caso di Puškin, di Čechov, di Čaikovskij, ciascuna volta Anikushin studia a lungo le opere e s’informa intorno al suo personaggio. Guarda e legge quanto è stato fatto da altri, fotografie quando ci sono, documenti. Costruisce l’ambiente in cui il personaggio è vissuto. Quindi incomincia. Un lavoro può comportare stagioni lunghe. I pretesti sono molti per la sua impresa: la contadina, l’attrice, il medico, la vittoria, il musicista, la danzatrice, i soldati, il capo, l’umile. Una folla di personaggi che, nell’atto artistico, non sono più personaggi, ma pezzi di un’opera perenne, la vita altrove, la bella galleria dell’avvenire.
Nei disegni come nelle sculture si distinguono tempi differenti e vari. Un viaggio, un evento segnano svolte, incidenze, danno il pretesto per scandire i tratti di una ricchezza di spirito. Sempre con quel ritratto che firma la sua vita.
Per fare una statua, Anikushin procede anzitutto dal disegno, cioè dall’ironia, modo dell’apertura, modo del cielo.
La serie dei disegni e delle sculture. Storia e impresa. La sigla. E la cifra. I tipi del pianeta. Dall’albero,tanto per indicare una barra, figura del due, al foglio, al tipo, ancora alla firma. La celebrazione della vita, della parola nella sua logica e nella sua cifra. Le donne? Tipi di donne. Gli uomini? Tipi di uomini. L’immagine videomatica rilascia il tipo. Festa dei tipi di paesaggio. Celebrazione della memoria culturale e artistica che diviene fabbrica d’invenzione e di arte.
Ciascun disegno è un’opera compiuta. Esprime il contesto. Attiene alla logica e alla struttura della parola. Il disegno porta la cifra di Anikushin. Perché mai toglierlo dall’essenziale di una vita di arte e d’invenzione?
Alcuni disegni non si collegano per nulla con una statua da fare o fatta. Specialmente i disegni architettonici risultano il compimento di musica e architettura, una lettura per cogliere l’approdo alla qualità. Anikushin lo fa anche durante i suoi viaggi in Italia. Mai un’operazione di memoria né di nostalgia. La memoria trapassa nel messaggio e nella lettura.
I disegni di Anikushin inaugurano l’essenziale della ricerca e di quanto egli farà, fino alla conclusione della statua o del monumento. Essi instaurano il futuro, da cui procede, a tratti, a getti, a colpi, ciascuna opera. Hanno il valore della speranza, per cui la parola si rende nella sua particolarità e nella sua qualità. Proviamo anche a leggere un disegno dopo avere seguito .il suo compimento nella scultura: risulta, per questo verso, l’avvio dell’annuncio di una “realtà virtuale” e di un messaggio. Qualche disegno sembra la traccia del progetto e della scommessa. Qualche altro risulta redatto dopo la statua. Non è tanto Anikushin quanto la statua a attribuire ai disegni un valore. Un valore, comunque, differente. Ecco una carta del 1944 con quattro disegni. Una casetta fra alberi spogli in un paesaggio dai tratti nettissimi.
Un uomo tiene in una mano il fucile e nell’altra una corda lunga, cui sta legato il suo cane, in basso, sullo stesso rilievo. Una ragazza dall’aria leggera e gioiosa, dai riccioli semplici quasi a formare una corona di fiori e dalle braccia nude, tiene un enorme libro fra le mani. Guardando lontano. Un signore, con cappello rigido, barba e capelli debordanti e un mantello lungo, è colto mentre cammina.
Anikushin vive accanto all’assedio, accanto all’eccidio di Leningrado. Costruisce, in seguito, una grandissima opera monumentale, al centro della piazza della Vittoria a San Pietroburgo, Agli eroici difensori di Leningrado caduti durante l’assedio dei nazisti nella grande guerra. Epica. E poema. Granito. Bronzo. Trentatré sculture. Ai due lati. E due al centro sotto l’obelisco. La città durante l’assedio nazista. Ecco i difensori. Scorci. Avvenimenti. Nessuna agiografia. Il monumento enuncia la saga, cui approdano la fiaba, il racconto, la fabula. Al culmine dei dettagli e della scrittura. La saga. In seguito al cinema e al teatro. In seguito alla musica. In seguito all’arte della piegatura. E senza tragedia. La saga: compimento di una narrazione bellissima.
I monumenti ai civili caduti costituiscono varianti, della deposizione. Nessun simbolismo scontato. Ecco il primo. Sempre a U. A destra, un soldato alto, armato di fucile, sostiene lievemente una donna, più piccola di lui, con il capo coperto, piangente. A sinistra, una donna solenne, alta, decisa, prospera, tiene in braccio il corpo di un bambino. Al centro, due donne dai lunghi capelli: l’una solleva un po’ l’altra, distesa e in abbandono. Un’altra edizione del monumento varia le figure del gruppo, quasi più sobrio e meno solenne.
Del 1967 è il monumentale fregio della Vittoria, di ventotto metri, con gli episodi del 1905, dell’Ottobre e della lotta del 1920. Epopea senza pathos. Scorci lirici senza fatalismo. Avvenimenti senza localismo. Procedendo dal futuro della speranza, dal modo dell’apertura, anziché dalla speranza nell’avvenire positivo o negativo.
Estratto dal volume Artisti, di Armando Verdiglione |