LA PITTURA DI OMBRE E DI DUBBI DI FERDINANDO AMBROSINO
di Domenico Rea
A un pittore come Ferdinando Ambrosino, nato nel 1938, dalla breve e dalla lunga carriera, bisogna avvicinarsi con cautela; bisogna vedere e rivedere le sue tele e quasi ascoltarle perché tutte hanno una matrice comune: l’origine marina, ereditata dalla terra nativa, Bacoli, epicentro e, si potrebbe dire, epitome di un universo che fu battuto, scandagliato, distrutto e ricostruito, da un caos a un ordine continuo, dal mito flegreo.
Se dietro le tele e il lavoro di Ambrosino non si pone questo gigantesco schermo controluce si corre il rischio, per esempio, di non capire perché il pittore, pur avendone tutti i mezzi, gli strumenti e la tecnica, in un periodo di conformismo generale, si è rifiutato di assumere nella sua tematica frange e sezioni di quell’arte irta di ismi e di sofismi, di significati tutti di testa – insignificanti – e di entrare in quell’esercito sterminato che ha distrutto la tela, i colori e i contenuti, puntando verso una “rovinografia”, caduta nell'indifferenza generale.
Questo passaggio, questo trasferimento tout court, con armi e bagagli, nell'altro campo, ben protetto e lanciato su ricettivi mercati, non ha mai preoccupato Ambrosino, nato alla pittura alla scuola di se stesso. Ambrosino non proviene da corsi accademici; non ha avuto maestri pubblici o privati.
Superata la maturità classica (in cui non si ha alcuna notizia delle arti) e iscrittosi alla facoltà di geologia – una scienza che, poi, lo avrebbe aiutato a interpretare più in profondo il suo ambiente naturale –, la pittura al giovane Ambrosino appare predestinata e folgorante, richiamo e rivelazione indifferibili, sulla sua piccola via di Damasco.
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