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La cifra della civiltà
di Armando Verdiglione
Mosca, luglio 1992. Incontro Alekseij Lazykin, il pittore, l'artista, il poeta, lo storico, il testimone, nel suo atelier. Come accade.
Un grande caseggiato, quasi in periferia, uniforme a tanti altri, pure lontani dal centro.
E lungo un viale, come tanti, ora assolato, quasi sempre innevato. Ho visitato molti artisti in caseggiati come questo. Un custode per ogni scala, un ascensore. E lunghi corridoi con opere pittoriche addossate l'una all'altra, uscite dagli atelier, incontenibili.
L'atelier di Alekseij Lazykin è costituito da un solo locale entro cui è ricavato un soppalco per tenere le opere come i libri in una biblioteca. Altre sono ai muri, altre disposte qua e là dall'autore, quasi a comporre una galleria. Due finestre, un tavolo, poche sedie, una più grande. Per l'ospite. È un vero e proprio incontro. Ma anche il primo dispositivo.
Alekseij Lazykin non parla molto. Eppure, eloquente. Interroga, piuttosto. Specialmente estraendo, dalla serie situata nell'altra metà della stanza, ora questa ora quell'opera. Serie e strati infiniti. Palinsesti della memoria, che, giungendo a perfezione, senza ricordi, senza gravità, si scrive.
Il cielo, la terra e le galassie sono l'immenso museo di Alekseij Lazykin. La Russia, l'Europa, le città, i mari, i ponti, i quartieri, i monasteri, le chiese, i musei, le case di città e di campagna, i viali, gli alberi, i campi. E ancora: le nuvole, il tramonto, l'alba, la neve, il ghiaccio, il freddo, il sole. Ovunque, il paesaggio è una tavola compiuta con cui la memoria si scrive, l'opera del museo. Ovunque la diagonale, da cui procede il suo atelier.
Molto tardi Alekseij Lazykin ha ottenuto questo piccolo atelier. Per ciò ha ritenuto ciascun ambiente perfettamente adatto a tracciare un disegno, a comporre un bozzetto, a concludere un'opera. In breve, a esplorare il museo, fornendo le prove della sua lettura.
Egli si è formato durante un decennio nella rigorosa Accademia di San Pietroburgo. Ha incontrato maestri in ciascuna fase del suo itinerario. Li ha ascoltati e ne ha tratto la lezione. Ma la sua frequentazione dei musei è essenziale per lui, come, quanto e più dell'Accademia.
Alekseij Lazykin non si ripete, non fa il verso a nessuno, non ricalca i ricordi, non si conforma a nessuna semiologia. Cita, chiama in causa, convoca il materiale della memoria nella narrazione e nella scrittura.
L'angolo di una città, lo scorcio di una campagna, un lembo di cielo fanno già parte del processo della memoria fino all'arte e all'invenzione, in direzione della qualità. Alekseij Lazykin assume la letteratura, l'arte, la storia, le fiabe, le favole, le teologie, le novelle, le colline, le spiagge, i monti, i prati, i giardini. Li assume nella sua esperienza, nel suo testo. Li restituisce nello scritto, nella poesia, nella pittura. Egli è lettore della civiltà. Fondatore, testimone e poeta del suo museo.
Riferisce di Konstantin Korovin, che, davanti a un'opera di Claude Monet, in un museo, esclama: "Come cantano le nuvole!". Lo stesso Konstantin Korovin si ferma, per ore, dinanzi all'Infanta Maria Teresa di Velázquez. Alekseij Lazykin aggiunge che questa citazione, ciascuna volta differente, interviene in quegli abusi linguistici con cui Velázquez giunge ai suoi ritratti.
Leggete i brani tratti dai diari, redatti, man mano, in cinquantatré anni: notate poesie, novelle, aneddoti, squarci della vita, tavole dell'itinerario, apologhi, parabole, aforismi. Incontri con maestri di vita. Maestri nei libri e nelle opere. Maestri nei musei e nelle biblioteche. Maestri nei loro atelier e nelle accademie.
Nessuna superstizione tiene dinanzi all'istanza dell'arte e dell'invenzione. E nulla è brutto. Ciascuna cosa ha la sua materia, la materia della parola. Materia del bello. Materia del sublime.
Alekseij Lazykin scrive e dipinge. Dipinge e scrive. Abbozza, disegna. Che gli scritti vengano pubblicati o che le opere vengano esposte è qualcosa d'improbabile. Non propriamente una finalità. Costante il proseguimento. Costante l'istanza della produzione.
Nell'intervallo fra due prove di realtà, quella incodificabile e quella indecidibile, qualcosa accade, facendo, nei termini, nei modi e nelle misure della prova di verità.
A sedici anni, primo premio per un disegno dal titolo Là, dov'erano i tedeschi. Il pittore Vasilij Il'ič Suvorov è amico e maestro, di arte, di letteratura, di vita. Gli suggerisce di andare a studiare a San Pietroburgo. Gli dà le prime lezioni di disegno. Alekseij Lazykin incontra, poi, un altro maestro: Stepašhkin. In seguito, saranno importanti l'incontro e l'amicizia con Rostislav Barto.
Ma per lui sono pure essenziali i maestri che incontra nei musei, nelle gallerie. I maestri del Rinascimento. I maestri europei e russi di questo millennio. E man mano insegue pure i maestri scomunicati, messi all'indice, proibiti, maledetti dal regime. E così, in varie fasi, e a seconda delle oscillazioni stesse del regime, egli incontra e legge non solo Dmitrij Nikolaevič Kardovskij, maestro di Vasilij Il'ič Suvorov e di Vasilij Kandinskij, non solo Aleksandr Ivanov, non solo Il'ja Efimovič Repin, ma anche Konstantin Korovin e Valentin Serov, Paul Cézanne e Kuz'ma Petrov-Vodkin, Henri Matisse e Pablo Picasso, poi Vasilij Kandinskij e Kazimir Malevič, poi Vincent Van Gogh e Paul Gauguin, poi Michail Vrubel', poi Giorgio Morandi e Massimo Campigli.
Egli non accetta di mettersi al servizio del regime né con l'arte né con la poesia. Non serve la dottrina e la disciplina di partito. Non dipinge per compiacere la vanità e la parata degli uomini di potere. Egli narra delle difficoltà nell'ambito dell'Unione degli artisti e con quale interesse sia entrato, prima, nel "Club Industria", con il pittore Pëtr Anurin, e, sopra tutto, nel "Club dei pittori", con il maestro Josif Gurwič.
Senza conformismo e senza naturalismo, Alekseij Lazykin è, anzitutto, artista autentico. Non deraglia, né a destra né a sinistra, si attiene all'essenziale e al suo itinerario intellettuale. Non fa dell'analisi un sezionamento algebrico della natura, come, afferma, taluni imitatori di Paul Cézanne, frammentaristi, riproduttori, in piccolo, del ricordo di Paul Cézanne.
Vedere è anche intuire, udire, capire e intendere, leggere, seguire il ritmo fra l'intero e il globale, in direzione della qualità della pittura. "L'artista non può ripetersi. Vive differenti vite". Ciascuna nel testo. Ciascuna nel museo. E del testo importano la logica, la struttura, la scrittura. Importa come le cose procedono per integrazione. Importa il globale, fino alla cifra della pittura. Fino alla qualità della vita. La pittura nella poesia. La poesia nella pittura. La pittura come scrittura della parola. La sua qualificazione assoluta.
E già il disegno, modo dell'inconciliabile e modo del tempo. Senza il bagaglio dottrinario, il bozzetto è la prima impressione: il materiale, l'annotazione; il ritmo procede dalla materia del futuro per farsi schizzo del racconto, della fabula. Il bozzetto: non c'è luogo della pittura, ma soltanto materia.
E mentre la lingua tace, il pittore dipinge. Quale lingua? Quella del litigio, del pettegolezzo, del conflitto, la lingua del conformismo. Altra la lingua della pittura. Altra lingua, con cui la ricerca si scrive. E lingua altra, con cui le cose che si fanno si scrivono e s'intendono. La lingua della pittura. Anziché la lingua della società normalizzatrice. Anziché la lingua della nomenklatura.
Qui, un motto di Rostislav Barto: "Strappare la pellicola della coscienza". Appunto, per instaurare l'altra pellicola, la pellicola della pittura.
La disperazione è senza rimedio: la sola speranza, il futuro. Da essa procede anche la fede. Ironia la disperazione. Modo dell'apertura. Già disegno. Già traccia.
"Un uomo senza fede è come una barca senza vela". Ma la fede precede anche la vela. La vela procede secondo la fede. La fede opera perché le cose si scrivano. Coerente la fede di Alekseij Lazykin.
"L'artista corre un po' più avanti". L'artista è anche combattente dell'arte e dell'invenzione. Diviene dispositivo di battaglia. Nella battaglia, la decisione trae l'opera al compimento. Senza più prigione. Senza più facilità. Senza più credenza.
E valgono gli echi e i consigli degli artisti. Come quelli di Volodja Krivonosov, che, un giorno, lo visita nel suo atelier.
Vincent Van Gogh è vulnerabile? Non lo è nella sua pittura. In essa, non c'è più soggetto, non c'è più gnosi.
"Non mi fermo a quanto ho raggiunto". Il conformismo più difficile da analizzare è quello rispetto a se stessi, alle proprie abitudini, alle propri affezioni, ai propri ricordi senza la memoria. La libertà, nel conformismo, è la morte. "Il conformismo non è libertà". La libertà della parola è la libertà della pittura.
"Vado con il tempo. Per questo, io sono molti artisti; artisti amici e fratelli, maestri nuovi e antichi. In ciascuna mia opera, l'istante è differente". E ancora: "La mia pittura è la mia vita". Niente eclettismo. E niente stilismo. Ciascuna opera giunge a compimento. Ciascuna opera fa parte del testo. Così una lettera. Così un appunto. Così uno scritto. E molti dispositivi intellettuali lungo l'itinerario. In ciascuna opera, il dispositivo è differente, l'istante è differente.
La prima distruzione della civiltà, massiccia, è compiuta dagli apparati ideologici, anche cancellando la traccia, la memoria, la storia. Scomunicando, con l'accusa di formalismo e di mistificazione, maestri antichi e moderni. Esecrando artisti come Rostislav Barto e Aleksandr Grigorievič Tjšler.
Come per la poesia, Alekseij Lazykin segue la perfezione della forma, senza la visione del mondo, avvalendosi dell'anatomia della sembianza e del tempo del linguaggio. La maestria è, appunto, il dispositivo intellettuale. Dispositivo di qualità. Si esercita in una strada difficile e semplice.
Questo il motto: "Arricchire la struttura della mia pittura in modo formale, costruito, e professionale". La catacresi si avvale della citazione, la esige, la instaura. La citazione, essenziale all'azzardo e alla novità, chiama in causa e in questione le cose; le convoca a un'ipotesi improbabile nell'infinito attuale della parola; le dispone al racconto, alla fabula, all'aritmetica, all'intendimento.
I vicoli, i canali, i ponti, le piazze, i porti, i villaggi, le porte, le fabbriche, le capanne, i portoni, il mattonificio, i cantieri, il quartiere antico, i fiumi, i giardini, i gruppi, le folle, i giocatori: nulla sfugge alla qualificazione, alla scrittura della memoria, alla lezione dei maestri greci e europei, bizantini e russi, alla lezione di Puškin e di Leonardo da Vinci.
Mai l'algebra del testo. Mai l'algebra della natura, della scena sociale e civile. Mai l'algebra del ritratto. Senza autobiografia, lo stesso autoritratto: nulla di simile né d'identico né di analogo né di opposto. Il ritratto viaggia nella scrittura che si fa cifra e tipo. Anche quello di Prometeo. Anche quello di Cristo. Anche quelli di Nelja, la moglie, che egli incontra — dove, altrimenti? — all'Ermitage, nel 1956. Altrove, la moglie incinta. Egli disegna una bambina. Nasce la bambina. Ciascuno nasce nella parola. E già nel mito.
Leggete il Ritratto della nuora (1990): la sagoma, scura, di un uomo ghermisce la donna, l'avvolge, la circonda. Il ritratto procede dall'ombra, dal futuro, dal modo dell'inconciliabile. Alekseij Lazykin si accorge che il figlio di lì a poco morirà? Una sensazione? Nessun presentimento.
Ciascuna opera convoca il lettore all'appuntamento di ricerca e di scrittura, a un dispositivo di qualità. Senza nessuna genealogia. Senza nessuna zoologia del potere. Leggete La fabbrica (1972): trovate la fiaba, la narrazione, la favola, l'apologo, la parabola, la saga. Fino alla cifra. Leggete La doccia (1971): trovate il disegno, il bozzetto, la poesia, il ritratto, la scrittura, il romanzo storico, il romanzo politico, l'aforisma. Leggete Il ponte (1970): e avete il ritmo e il suo dispositivo, senza divisione algebrica. Leggete La San Pietroburgo di Dostoevskij (1969): e intendete come il romanzo politico si dipinge e si scrive.
I mezzi e gli strumenti di Alekseij Lazykin, le tecniche e le macchine, le arti e le invenzioni sono propri alla sua vita, alla sua pittura, al suo itinerario. Tempere e oli, pastelli, matita: la maestria tende all'unico. E ciascuna volta, altro il colore, altra la luce. Ciascuna volta, l'azzardo, fino al caso di qualità. Il colore è la moneta della pittura. A San Pietroburgo sembra brillare l'argento. In Italia l'oro. Fra San Pietroburgo e Mosca, fra il Mar Baltico e il Mar Nero, fra la Russia e l'Italia: il colore – invisibile, intoccabile oggetto della parola, della pittura – è la condizione dell'itinerario, nonché della luce con cui le cose che si fanno s'intendono, dividendosi, piegandosi, scrivendosi. Le scuole si cimentano con il colore e con la luce.
Da San Pietroburgo, a Mantova, a Firenze, a Venezia, a Milano, a Petrodvoretz, a Gurzuf, a Anapa, a Minsk, al fiume Jauza, a Bologna, a Roma, a Sanremo, a Genova, a Mosca, alla Villa San Carlo Borromeo, Alekseij Lazykin offre la cifra della pittura, la cifra del Novecento, la cifra della poesia. La cifra della civiltà. Lontano dal sistema conformista della pittura New Age, del bello puro e bianco, del bello-morte bianca. Lontano dalla pittura facile facile, di moda nei saloni dell'arte e nei Grand Hotel. Lontano dalla pittura senza maestri, senza bottega, senza la traccia, senza la memoria. Lontano dalla pittura fatta di frammenti di ricordi bianchissimi.
La salute come istanza di qualità è imprescindibile dall'itinerario, dalla poesia e dalla pittura di Alekseij Lazykin.
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