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La mia vita
di Alekseij Lazykin
Sono nato il 17 febbraio 1928 nella città di Podol'sk, a 40 km da Mosca. Mio padre, Aleksandr Dmitrijevic Lazykin, lavorava in una fabbrica di manutenzione di locomotive a vapore, prima come meccanico, poi come caporeparto. Mia madre, Ljubov' Sergeevna Lazykina (nata Makarova), era casalinga. Ebbero cinque figli. Io ero il maggiore.
Negli anni trenta, dopo la prima purga nelle file del partito, mio padre fu privato del lavoro. Il pretesto fu quella sala da tè che mio nonno, il padre di mio padre, aveva aperto sulla strada di Kaluga nei giorni della rivoluzione d'ottobre: se ne ricordarono e la usarono per imputare mio padre. Ma poi fu riaccettato nel partito quasi subito perché, secondo il detto di Stalin, "Il figlio non risponde per il padre". Poco alla volta, riprese la sua carriera.
"Moriremo tutti sotto il Cremlino", diceva mio nonno, che non sopportava i bolscevichi. Mia madre era vedova quando sposò mio padre. Con il primo marito, un tolstojano, aveva avuto due figli, che morirono bambini. Prima della guerra, a Podol'sk, nel grande appartamento dove vivevamo c'erano altre famiglie. Incominciai lì a disegnare. Un coinquilino era architetto. Io ero impressionato dai suoi fogli e dai suoi disegni. Dipingeva le finestre dei suoi prospetti in differenti colori. Fu lui a lodare la mia prima grande copia dell'opera I tre giganti di A. Vasnečov.
Nell'ottobre del 1941, le truppe tedesche si avvicinavano a Podol'sk e molte famiglie furono evacuate. Fra queste anche la mia. Ricordo che, sotto il crepitare delle contraeree ci avviammo, in vagoni-merce, in "terra straniera".
Silenziosi si muovevano i vagoni,
scorrevano come lacrime dalle palpebre.
Ricordo la madre e i suoi occhi gonfi,
accecati dal dolore per sempre.
Mio padre rimase a difendere Mosca e fu nominato comandante di un gruppo di partigiani. Quando, nei pressi della città, le truppe tedesche furono disperse ci raggiunse a Ekaterinburg (Sverdlovsk) e ci portò con sé a Samara (Kujbyšev). Arrivammo nella piccola cittadina sul Volga, e andammo a abitare nelle baracche, dove, una volta, avevano vissuto i prigionieri.
Nella scuola in cui studiavo, insegnavano insigni professori giunti da Kiev, Mosca, Leningrado. Alcuni sostennero la mia inclinazione e la mia passione per l'arte. Io, intanto, mi occupavo della grafica del giornale murale, facevo parte della filodrammatica, organizzavo il giornale illustrato "Junost'" [giovinezza], in cui, con i compagni, disponevo versi, racconti e articoli: tutte cose patriottiche, evocate dal generale fervore del paese per la lotta contro l'invasore fascista. Le prime lezioni di disegno le ebbi da Vasilij Il'ič Suvorov, allievo di Dmitrij Kardovskij. Lo accompagnavo nel suo studio e lui mi raccontava dei pittori dell'antichità, dell'Ermitage. Anche a Leningrado, fu sempre lui a indirizzare la mia attenzione a Tiziano e a Rembrandt.
Nel 1943, inviai a un concorso pansovietico organizzato dal giornale "Pionerskaja Pravda", un acquarello dal titolo Là, dov'erano i tedeschi. La giuria, formata da L. Smechov, D. Smarinova e altri, mi diede il primo premio e l'acquarello fu pubblicato sul giornale. Nel 1945, nel giorno della Vittoria, scrissi i versi Canto della Vittoria, e anche questi furono pubblicati. [...]
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