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Il padre e il figlio. Il resto č differenza
di Cristina Frua De Angeli
Erano passati dieci anni da quando Gregorio si era messo in viaggio in cerca del Pittore del cielo, per tener fede alla parola data. Aveva incontrato pittori della foresta e pittori del deserto, pittori della città e pittori della campagna, pittori che dipingevano solo sassi e altri che osavano dipingere Dio. Per tutto un inverno era rimasto con i pittori del mare, che erano i suoi preferiti perché le loro storie erano sempre uguali. Ma per quanto cercasse, non aveva incontrato il Pittore del cielo. Una sera si fermò in una grande città adagiata in una pianura grigia e attraversata dal fiume Moskva.
Strade larghe tagliavano la città da nord a sud e da est a ovest, per chilometri, e le file di alberi scheletriti si rincorrevano ai lati, nel livido crepuscolo. Gregorio era a disagio in quella gelida fine di pomeriggio, non conosceva nessuno e nessuno lo aspettava. Ficcò le mani nelle tasche del cappotto, sprofondò la testa nel bavero lasciando che i pensieri gli scivolassero nei piedi e s'incamminò lungo la strada debolmente illuminata. Era piombata la sera quando arrivò a una svolta, la strada si faceva stretta e finiva in un cortile.
In fondo al cortile c'era una casa a cinque piani, coi finestroni grandi.
Si avvicinò al portone, appoggiò le due mani ai battenti di vetro, entrò, salì la prima rampa di scale, i gradini di legno consumati al centro, e si trovò in un largo corridoio. Alle pareti, ai due lati erano appoggiate delle tele. Si avvicinò, facendo scricchiolare il pavimento di legno, si voltò, non c'era nessuno. Dal fondo del corridoio, a sinistra, una luce. Usciva da una porta lasciata socchiusa, che introduceva in una stanza. In un angolo una panca, una sedia, un tavolo coperto da un'incerata azzurra, un fornelletto per l'acqua, una tazza, due bicchieri. Alle finestre tendoni di tela grezza, a righe e raccolti ai lati, debordanti. Gregorio sfiorò la porta che si spalancò. La stanza era molto grande. Tele e telai di varie misura erano appoggiati alle pareti, già avvolti in carta pesante e legati con lo spago, e cinque grandi casse di legno erano lì per essere sigillate.
Gregorio si guardò intorno, incerto. All'improvviso si ricordò, una vampata gli colorò il viso, si avvicinò alle tele e con mano ferma cominciò a sciogliere i nodi del primo pacco. Ne estrasse una tela, poi un' altra e un' altra, ne contò quindici, poi passò al pacco successivo e così, senza accorgersi, li aprì tutti finché i quadri ebbero invaso la stanza. Allora lui ci si lasciò affondare gli occhi e li apostrofava uno per uno: tu e tu e tu, amici perduti e ritrovati,luoghi della sua infanzia, la fontana in mezzo al lago, la Villa Reale, gli orizzonti di marzo e l'ultima neve che, sul finire dell'inverno, andava a raccogliere sui campi di sci e chiudeva in piccole bottiglie che poi sotterrava. E il dolore salato quando, recuperato il tesoro a primavera, la candida manna era sparita e restava sul fondo un po' di acqua sporca. E il campanile della chiesa con la cupola d'oro, il viale di betulle, il cortile cinese, e il campo riposato dopo il raccolto, e i pini sull'acqua, come li aveva lasciati così ora tornavano a lui, con la dolcezza di allora quando il mondo era piccolino e stava tutto nel palmo di una mano. Le piazze d'inverno, i lampioni, le serate di gelo,i febbrai azzurri, il vecchio cortile, i vicoli nelle notti di luna, i viali in città, il porto, il vecchio monastero e persino la casa in demolizione e l'acero cadente gli venivano innanzi, insinuando le canzoni e le filastrocche di allora, la preghiera della sera e il segno di croce, le mani profumate di sua madre. Era intento nei suoi conversari, quando notò un chiarore venire dal fondo della stanza.
Un cielo bianco di latte, un immenso cielo di madreperla, un cielo inconfondibile si scioglieva su una tela grande e schiariva una città appoggiata sull'acqua – un fiume o il mare? Non assomigliava a nessuno dei cieli che Gregorio aveva visto: nessun tramonto pareva In sfiorarlo e nessuna notte, sprofondate le stelle, naufragata la luna, era un cielo senza sole. Un cielo tranquillo senza attesa e senza promesse, irrimediabile, inconciliabile, a guardarlo sbiancava gli occhi. Gregorio rimase immobile, le orecchie tese. Veniva, da quel biancore,una canzone. Chiuse gli occhi per ascoltare meglio e allora il cielo gli si fece innanzi più sconfinato e lucente, nel bianco brillavano i colori e le sfumature più rare, e non bastavano tutte le parole che conosceva per dirle. Adesso lui camminava in quel cielo e gli parve finalmente di capire e d'intendere, e vide suo padre venirgli incontro, le scarpe di tela, e sorridere, sorridere, le mani quadrate da disegnatore tese verso di lui. "Come vedi sono tornato, gli disse, tranquillo.
A Gregorio, che non aveva mai pianto neppure quando il padre se n'era andato, gli occhi si riempirono di lacrime. Si chinò sulla t l e nell'angolo a destra, in basso, lesse: ALEKSEIJ LAZYKIN.
Aveva trovato il Pittore del cielo. Infilò la sua mano in quella del padre e scivolarono piano nella notte stellata.
Mosca 1992. È Natale. Dalle finestre del vecchio Metropole, restaurato e riaperto da poco, Ida osserva il palazzo giallo con le grandi finestre profilate di bianco e la neve sui tetti. Il freddo della sera del suo arrivo si è un poco attenuato e il cielo è plumbeo, anzi di latte. Nessuno spiraglio di blu. I moscoviti preferiscono le basse temperature che spazzano via la coltre e aprono il cielo. Ieri al crepuscolo la luce era proprio come la dipinge Lazykin: azzurra.
Una giornata sorprendente, ieri. Hanno attraversato prospettive e viali, fino all'estremità di Mosca. All'ultimo piano di un fatiscente palazzo, la porta a vetri incorniciata di legno chiaro, le scale a pezzi, un cartone per zerbino, l'ascensore dove non serve chiudere le ante, arrivano nell'atelier del maestro. [...]
Citazione tratta dal libro Ma chi è questa bella principessa?, Spirali, Milano 1994
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