"La Voce Repubblicana", 22-23 ottobre 1970
Cuori di plastica collegati a tubi di lavandino, pesci in materiale sintetico che aprono
e chiudono ritmicamente le branchie, occhi di plastica e metallo dalle palpebre semoventi. Oggetti: questo il mondo che Saverio Ungheri propone. Ancora una volta l’immagine oggettuale proposta con intenzioni dissacratorie sino all’ironia, allo sberleffo, alla contaminazione irriverente. Ancora una volta la civiltà tecnologica presa per il bavero
e scaraventata sotto gli occhi dello spettatore, priva della falsità del cellophan e dell’alone scientifico. Ma sino a che punto? Sino a che punto questo “nuovo oggettivismo” d’estrazione “pop” ma che poi, andando a ritroso, può collegarsi alla grande matrice del “nuovo oggettivismo” tedesco, riesce a scalfire la condizione contemporanea dell’uomo,
la società che in lui si identifica, l’ambiente nel cui ambito illusioni e realtà perdono sempre più i confini delimitatori per confondersi senza soluzione di continuità e, quindi, possibilità di chiarificazioni? Ironia attorno alla tecnologia e alla mistica del concetto scientifico! D’accordo. Ma ormai una siffatta posizione è acquisita all’indagine percettiva dei nostri giorni e proprio la scomparsa di quei confini cui accennavamo rende sterile l’azione provocatoria in tal senso, traducendo i risultati nel generico gesto demistificatorio il cui prezzo è già preventivato nel conto economico della società che quel gesto vorrebbe contestare. Allora di Ungheri non resterà che sottolineare la carica amara che, alla fine,
è possibile individuare alla base del suo discorso. La protesta che, in fondo, si traduce in impotente rassegnazione: l’ironia diventa così il riso del clown, sgangherato, forzato, urlato per non concedersi pausa significherebbe integrazione, possibilità di acquisizione
al sistema, e la farsa si tramuterebbe in tragedia: il rischio, poi, che costantemente la ricerca di Ungheri vive.
|