Emilio Villa, 1973
Forse pochi, o nessuno, dei profeti in esercizio avrebbero mai potuto presagire che la scultura, a partire, mettiamo da Mirone, sarebbe arrivata a questa scultura di Ungheri,
a questo campo di rappresentazioni: serre di cicatrici, ulcere e aperture nelle più grandi oasi anatomiche, vergate a labirinti lividi; contrazioni di diaframmi, comprensioni vascolari, fruscii di colesteroli, elasticità propulsioni impulsioni espulsioni, camere cellulari immensificate, tessuti in sospensione, in suspense; ossigenazioni tonali, sonore.
Un Minotauro biologizzante che opera allo sbaraglio, e la dissezione si integra in nucleo autonomo e irradiazione spasmodiante, per evocare la paura, il contatto organico, l’essenza, la successione; come evocare capillari labirinti di natura immaginosa, ipostasi di vertigine cieca, accecata nel travaglio metabolico del lessico anatomico; come ricercare conseguenze magiche, rituali, sacrificali su un theatrum fisiologista, e come portare sulla scena il dominio inevitabile, un quadro disseminato delle superiori discrezioni ritmiche della vita e della morte; estirpare una ossigenazione simbolica dell’enigma cellulare, e tracciarne i diagrammi di una dinamica tra ironica e fittizia (fictio); e trascinare l’inchiesta labirintica nel seno informe del biologico militante, scrivere i piani di caverne-vascello dove il sangue immaginario scola da fonti quasimitiche.
Una coerenza operativa che crea un impulso di esagitazione miticomimetica, condotta
al punto non sperato di alte oscillazioni arcaico-future, idonee alla concrezione di superiori angosce, di astratti deliri: impulsiva batte in quell’area una acrobatica armonia (realmente attuata) del respiro e del singulto, del sibilo e della pulsazione, del premito
e dell’orgasmo, e, insieme sempre, l’esterrefazione sussurrata delle tossine alla deriva delle stagioni.
Si rappresenta così una storia di gorghi e ingorghi sulla strada liberatoria, fra ostacoli svaniti, verso una specie che chiamiamo le village d’être: con la geografia emozionale della giungla molecolare (il locus, il locus communis del timore umano, del timore incarnato, dell’incarnazione) con le prospettive sussultorie dell’eventuarsi, del vitalistico, perifrasi
e stazioni della filogenesi, sostenute anche da certa impertinenza: in riflessi incandescenti, in simulazioni stimolate, inopinate suggestioni pulsanti e respirose, dominio della fertilità: occhio, vulva, cuore; e i sacramenti della notte cellulare posti in collusione, illusione;
in collusione con le frontiere dei territori simbolici e con il senso irreversibile della morte fatta immagine vivente di se medesima, isteria degli eventi concettivi e generativi.
Prendere questo vaso ululante che è l’organismo zoomorfico (e l’estasi della zanzara,
e l’erotismo dell’ape regina con i misteriosi bramiti, e la mostruosa prosopopea della mantide; in traiettorie tra l’antica valle d’amore, che è il cuore, e il colle senza fine dell’ombra pelvica), prendere un organismo, dunque, e cancellarne i terremoti e le intemperie, per salvarne l’unica, l’ultima sostanza, che è il meccanismo, la superficie motoria, i suoi recitativi, i suoi lampaneggi, i guizzi di interminabili brevi rattrappiti disastri: queste le emozioni della “scultura” di Ungheri, delle sue superfici e protuberanze motorie, da cui fuoriescono luminiscenze, intermittenze, cadenze captate alle aree del deperimento vitale, alla densità degli squilibri e delle allegorie, a un sistema anamorfico sensitivo e di livello splendidamente, musicalmente ipotetico: il meccanismo della vita che tende a rapire se stesso e fuggire da se stesso, a debordare per attestarsi nell’alveo degli emblemi vitali, cioè nella grande sospensione (suspense, insisto) dinamica: sìstole e dìastole come registri ambigui dell’humour, ritmo semaforico della noche senza nessuna fine, nessun fine.
Allora, diciamo, in che spazio siedono, a quale spazio si abbracciano, con che spazio si coniugano le sculture palpitanti? Tutto lo spazio esterno sarà identificazione e verifica del corpus illimite, di cui il corpo umano, che dovremmo avere la gioia di guardare con infinito disgusto, è una misura meschina, un impatto; e con cui il corpo umano costruisce trattiene e filtra l’area di moto e di immobilità.
Questo il senso che avrà l’isolamento degli organi vitali in spazio illimite: organi di corpi assenti che soffrono di essere, che vacillano, e il cui ritmo e le cui incandescenze dicono: bisogna assolutamente perire! Per cui lo spazio rifratto è l’inutile filigrana del corpo ibrido; e gli organi motorii, pulsanti e vocali, del corpo ibrido evocano la natura nera, l’humour come trasgressione e sconfitta, diciamo qui, per la prima volta, un humour rouge: del quale testimoniano l’essenza-assenza sacrilega, come trasmodante, trasfigurante, trasfinente. Diciamo dunque questa “scultura” una comparizione sufficiente radicale per raffigurare
il corpo (corpus, quindi) come forma di una divinità, o del dio non ancora nato, schiavo integrale del caos fecondante: nicchie del palpito informe e omniverso, cavo della dimensione fluida (non eraclitea), ragni di battimenti imperativi nel decrepito edificio del corpus, inestricabile nodo-ricordo del caos in flessione.
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