Presentazione in Saverio Ungheri e il Polmone pulsante,
Centro attività visive Palazzo dei Diamanti, Ferrara 1982
Come tutti gli spiritualisti autentici, Saverio Ungheri è ossessionato dal peso delle cose quotidiane, dai flussi della storia e della cronaca ai quali reagisce con passione e perfino con violenza quando non vi trova quel riscontro immediato, intuitivo, che la tensione interiore, fattasi modo dell’essere, sempre pretende per quietarsi nella forma estetica. Questa, voglio dire, è conseguenza pressoché imprevedibile di ciò che un tempo si diceva moto dell’animo e sarebbe abbastanza inutile, anche al fine di una analisi del linguaggio
di Ungheri, prendere le mosse dai dettati di scuola che qui valgono non come norme a priori, ma in quanto strumenti più o meno funzionali, più o meno impuramente assunti,
di una immagine che ha le sue ragioni prime nel tumulto dell’apprensione individuale e quindi rifugge dalla univocità degli schemi per aprirsi a una continua contaminazione.
Ciò spiega il disagio dei critici che hanno cercato di catalogare le opere di Ungheri sotto
le insegne più varie, dall’arte cinetica alla “pop”, dal surrealismo fino alla metafisica,
senza per questo poter davvero districare il groviglio che le immagini dell’artista calabrese pervicacemente infittiscono.
È in questa complessità, nel cumulo di interazioni che s'accalcano sulla più limpida delle superfici come nel più complesso dei suoi manufatti, che l'arte di Saverio Ungheri trova splendida legittimità come luogo dei disordini in cui lo spirito moderno è condannato a vivere e a dibattersi per verificarne l'impossibile misura.
Chi è sensibile al dettato spiritualistico non può esimersi dall’esercizio delle profezie
e la profezia, si sa, è il luogo privilegiato dei simboli. Ungheri è quindi artista rigorosamente simbolico e tutta la sua produzione, scritta, dipinta o scolpita che sia, vive nella dimensione allucinata — dell’allucinazione “reale” intendo — che è propria di ogni credibile universo fantastico.
Chi scorrerà questo catalogo avrà occasione di soffermarsi su riferimenti pertinenti all’ideologismo, Nilde Iotti e Saverio Ungheri alla collocazione anche “politica”
di certi messaggi che Ungheri non rinuncia a lanciare, ma in questa sede a me forse compete sottolineare che il gran groviglio delle forme e degli oggetti si regge su di un equilibrio che non è soltanto quello estetico-formale, e neppure quello delle palesi significazioni. Ungheri percorre le vie del misterioso, oltre che quelle del mistero contemporaneo.
Ciò è tanto più impressionante in quanto egli, nelle sue simbologie primarie — il cuore, l’animale, l’uomo stesso, il “capolavoro d’arte”, ecc. — ci appare singolarmente avvinto alla realtà delle cose. Ma la sua non è oggettiva, bensì è realtà naturale, ricca di impulsi, tensioni, fremiti che la animano e che egli coglie come un tutto vibrante, come appunto si coglie la natura che solidifica per accidente o per interna misteriosa evoluzione.
Le sue cavallette meccaniche, per esempio, non hanno subìto meno il peso dell’evoluzione di quelle scrutate dal naturalista, si direbbero anzi sviluppare secondo una ancor più precisa necessità.
Così il suo cuore pulsante non è soltanto un simbolo ma anche un organo in cui i ritmi
e i suoni non giocano un mero ruolo estetico, ma più precisamente funzionale al desiderio e alla condanna del grumo vitale a scontare, più che a rappresentare, il mistero della vita: che è ancora un mistero di natura ove fisica e metafisica, psichismo e metapsichica si fondono e si confondono nell’esaltazione della struttura e della forma.
Vedere queste opere soltanto come opere d’arte è certamente possibile, e in verità quasi tutti i critici che si sono occupati dei fantasmi-oggetto di Saverio Ungheri l’hanno fatto con tutta proprietà, ma a me sembra che il modo più produttivo per avvicinarle sia ancora quello disordinato, lancinante, frammentario, “ingenuamente” teorico che ha usato Emilio Villa procedendo per approssimazioni, per tautologie, per assonanze in una sorta di orgia onomatopeica che forse penetra nel circolo dell’opera assai più che non l’aculeo critico
e teoretico.
Così come il modo più credibile di esporre i meravigliosi mostri di Ungheri è certamente quello di accalcarli nel caos che la loro inattualità rispetto al presente, la loro forza scompaginante suggeriscono.
Non è un caso che l’opera più suggestiva di Ungheri sia e resti ancora l’antro romano in cui a pulsare non sono soltanto gli oggetti d’arte, ma le cose e gli uomini coinvolti in un rituale del conoscere in cui l’assurdo recita il ruolo principale. Insomma, Ungheri costruisce trappole per lo spirito, ed è per questo che i suoi lavori hanno tanto peso di realtà
e travalicano il senso del mero valore estetico.
Nella giungla dei simboli Ungheri ci imprigiona, infittendo i misteri assai più di quanto non
li dipani; ci rende così coscienti della nostra mancanza di libertà.
Egli fa dell’arte lo strumento, affascinante e orrendo, della nostra dannazione quotidiana
e, insieme, della più disperata speranza metafisica. |