"Il Secolo d'Italia", 8 aprile 1977
Saverio Ungheri, un artista (o un “anartista”, per usare un’espressione cara a Duchamp) che rifiuta le etichette definitorie, si presenta alla galleria Flegias, con il suo armamentario meccanico-cinetico (o pop-surreale?), per confermare la sua scelta antivisiva e antiestetica, anti-kitsch e anti-buongusto, in una parola anti-opera-d’arte-tradizionale.
Da qui il debordare continuo della vita nell’arte, o meglio degli oggetti della vita tecnologica (tubi, spirali, catene e anche celebri opere d’arte tradizionali, ridotte a prodotti confezionati e condizionati dal gusto) nella “bellezza dell’indifferenza”, che è, secondo Duchamp, il modo d’essere dell’opera non-opera.
L’operazione per Ungheri comporta una duplice conseguenza di carattere generale: rivendicare il dominio dell’intelligenza all’artista, un tempo considerato “bête”, cioè stupido perdigiorno a cui è estranea l’influenza della mente; nonché il suo potere di scelta (e d’ironia) nei confronti di quegli objets trouvés dell’elettronica, ridotti a demistificati
e consumati oggetti della nostra ammirata indifferenza.
Con il risultato di lasciare la carica dell’intelligenza ai margini di quel mondo incongruo,
che pulsa e si muove, che registra e programma, continuamente insidiato, però, dall’ironico e dal patetico: un potenziale, come si vede, ancora tutto da sviluppare
e impiegare e che in Ungheri conserva oggi la sua impressionante, pulsante, attuale drammaticità. |