PAOLO GESTRI
GLAUCO CAMBON
BERT W. MEIJER
UMBERTO BALDINI
MANLIO CANCOGNI
ELENA LOMBARDO
ANTONIO PAOLUCCI
LUISA BECHERUCCI
MASSIMO DI VOLO
PIER FRANSCESCO MARCUCCI
ROBERTO SALVINI
RAFFAELLO BERTOLI
RODOLFO GATTAI
MILENA MILANI
PIER CARLO SANTINI |
RAFFAELLA DE GRADA 1981
La via di Roberto Panichi Mi sembra di aver sempre conosciuto Roberto Panichi, tante volte ne ho sentito parlare anche se sono state piuttosto rare le occasioni d'incontro con le sue opere. La sua pittura figurativa è del resto piuttosto familiare al mio gusto e queste sue recenti "matrone" nelle quali ritrovo quelle scansioni geometriche ereditate da Picasso, che furono già così care al mio amico Cassinari, sono quadri a me piacevolissimi e, ritengo, molto pregevoli. So che Panichi è un uomo di cultura elevata e questa sua condizione lo ha salvato da quegli esperimenti avanguardistici che sono propri di quelli che vogliono arrivare per le scorciatoie piuttosto che per la strada maestra che è lunga e difficile. Per vecchia scelta Panichi (che è nato nel 1937) è sempre stato dunque un pittore figurativo e qui si avverte subito la solita interruzione del discorso: "figurativo o astratto, che importa", come si trattasse di pure categorie di valore. Un artista può essere altrettanto bravo sia nella figurazione sia nell'astrazione ma le scelte sono scelte e gli equivoci sono tanti. Uno di questi, ad esempio, è che l'artista figurativo sia uno che non ha esperienza internazionale, che non ha viaggiato, che non ha visto. Sciocchezze, e proprio lo stesso Panichi lo dimostra anche se non ha mai risieduto né a Parigi né a Londra né a New York, pur avendo ben conosciuto quelle capitali. Il fatto è che la critica, anche quella in buona fede, non si rassegna a uscire dagli schemi (questi, sì, tradizionali) secondo i quali tutto ciò che di importante si è verificato in questo nostro secolo sarebbe avvenuto soltanto in una di queste capitali e intanto ogni giorno si scoprono ingegni sepolti in Russia e in Germania, nella Scandinavia e in Italia. La figurazione di Panichi spazia da motivi consueti (paesaggi, fiori, ritratti, i ponti di Firenze) a altri meno soliti (il gioco medioevale del ponte, spettrali "palinodie", graffiti ispirati all'archeologia). Debbo dire che il tema d'eccezione (Il giorno dopo / The day after) sollecita in Panichi un linguaggio lontanamente riferibile alle scansioni cubisteggianti che furono già d'uso nel nostro dopoguerra. C'è un quadro del 1988 con un altoforno e case e gru a sghimbescio, a significare lo sconquasso, che ha un forte potere evocativo tanto quanto un paesaggio acquarellato del 1966 dava l'emozione di un giardino cinese. Un autorevole commentatore dell'arte di Panichi, Tommaso Paloscia, accetta per il pittore toscano la definizione di "neorinascimentale" per il genere di strumenti — dice Paloscia — adoperati nella sua indagine. Verosimilmente, il critico allude a quegli scritti di cultura che sono I principi della pittura figurativa nelle testimonianze degli artisti e degli scrittori d'arte e il Commentario ai passi tecnici negli scritti di Giorgio Vasari, due opere che qualificano il tipo di cultura di questo pittore che certamente non è un improvvisato come tanti. Per un artista che ha simili interessi culturali la difficoltà sta nel mantenere dopo tanto studio e confronto la freschezza dell'immagine, e mi sembra che Panichi ci riesca. Semmai, nella tema di perdere la freschezza dell'immagine Panichi talvolta non va a fondo come vorrebbe. Ma questo non è un suo torto, ciò coinvolge la massima parte dell'arte contemporanea che teme il realismo cioè l'approfondimento e la definizione dell'immagine per non toglierle quel tanto di arcano, di indefinibile che ci viene ancora dall'eredità romantica. Di solito, le prefazioni ai cataloghi degli artisti sono intese come elogio nel vecchio senso della "scoperta" ... questo è il più bravo! Non ci scandalizziamo ipocritamente, ogni volta che uno che dipinge o che modella chiede di essere da te illustrato, non pretende altro che esser difeso dal mondo che è sovranamente ingiusto contro coloro che non godono di potere, danaro, politica, amicizie o che altro sia. Nel caso di Panichi, di un uomo della sua cultura, si capisce bene che se il pittore si fosse limitato a fare del "citazionismo", a rifare il verso agli antichi che egli conosce bene, avrebbe trovato presto un ampio consenso come è provato da numerose occasioni in corso. Ma ciò non sta bene a Roberto Panichi che non si confronta con l'effimero ma con i grandi maestri del passato, come abbiamo già accennato. E il confronto lo porta a una dialettica continua con se stesso, al dubbio continuo dell'intelligenza. Innanzitutto, Panichi vuol essere un pittore e non un dilettante di genio, un improvvisato pronto a calarsi nel nulla dal quale la pubblicità l'ha sottratto provvisoriamente. Oggi scopriamo che poeti, certamente grandi come tali, erano anche "pittori". Noi che li abbiamo ben conosciuti, non ce ne siamo mai accorti e tanto meno essi ce lo dicevano. Il demone della pubblicità ingoia gli artisti e ci restituisce dei fantasmi, che poi si dileguano così come ci sono apparsi. Panichi invece è un pittore, uno che crea le immagini dal di dentro, uno che trema, si fa per dire, ogni volta che tira una pennellata, un antidilettante per eccellenza e basta guardare le sue "matrone", i suoi Ponte Vecchio, il colore non è applicato, è inventato volta per volta, con timbri che parlano alla sensibilità più riposta di ognuno di noi. Eppure, queste "matrone", queste "fisarmoniciste" sembrano dipinte alla brava, come quelle che dipingeva il mio caro amico Cassinari, con qualche "mano" scorretta e qualche confusione cromatica nei fondi e negli abiti, qualche incomprensibile striatura e fregio colorato in più. Ma direi che proprio questo è il loro bello perché ci fa capire che Panichi non rifà mai se stesso, che continua a meditare, a mettere a posto il quadro che potrebbe essere già fatto; è un pittore, un vero pittore. Difatti, sottoposte a tal metodo così elaborato ma anche sobrio e distinto nei suoi risultati, le figure ritratto-archetipo di Panichi si distinguono per il loro stile. Prima ho parlato di Cassinari, ma sono assonanze derivanti forse da un simile modo di vedere la donna e dal fatto che, dopo Picasso, in questo mondo d'oggi siamo istintivamente portati a restituire alla donna, umiliata come oggetto di sesso sulle copertine o espressionisticamente forzata alla femminilità contraffatta del femminismo, il carattere di regalità che la donna ebbe nell'arte di un tempo. Tra le ultime "matrone" si individua una ricerca di volume che non è presente in altre opere dove, come in Il sogno di Picasso, Panichi si lascia andare a una sorta di kermesse siciliana alla Migneco. In queste "matrone", la personalità di Roberto Panichi è stilisticamente sicura e spiccata, e la sua arte s'accampa in un clima culturale di solida e classica modernità.
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