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Vicenzo Accame
Segno e scrittura
Crediamo da tempo che il destino delle arti si stia giocando sul piano della scrittura.
Nel senso che la scrittura costituisce il “luogo della convergenza” dei diversi tipi di espressione e comunicazione estetica. E aggiungiamo che la scrittura ci sembra anche in grado di mediare la necessaria interazione tra i vari segni che intervengono nella creazione dell’opus.
Superati ormai i vecchi concetti nati dalle ricerche poetico-visuali (perché consumati nelle varie esperienze della poesia concreta, della poesia visiva, della scrittura simbiotica, della nuova scrittura, eccetera, tutte portatrici di rispettabili contributi…), e spostando l’obiettivo un poco più avanti, con l’intento di accogliere orizzonti sempre più ampi in un quadro che, necessariamente, deve considerarsi in continua trasformazione, il problema che troviamo sempre in primo piano è quello della comunicazione.
L’arte di questo secolo ha offerto continui e progressivi scollamenti dalla realtà, riducendo,
a vantaggio dell’invenzione, la capacità di comunicare. Poiché il cammino dell’arte, di ogni arte (del dipingere come dello scrivere, eccetera, ammesso che valgano certe distinzioni),
è irreversibile, e non si può concedere spazio a teorie pseudovichiane di corsi e ricorsi,
che esistono solo nella mente dei mercanti e degli stilisti di moda, questo rapporto tra arte
e realtà deve essere reinventato di volta in volta, tenendo conto delle diverse situazioni che appunto si vengono a creare lungo il percorso di questa “freccia evolutiva dell’irreversibilità” (come direbbe Enrico Pedrini).
Ora, dunque, per capire questo momento fondamentale dell’arte che guarda alla scrittura,
perno del discorso rimane ancora il segno.
Per quanto ogni affermazione debba risultare provvisoria, l’idea che l’arte ha del segno è l’unica via realistica che si possa seguire. In una breve indagine sull’uso del termine “segno” nella pittura, abbiamo per prima cosa constatato come spesso sia stata usata l’espressione “segno pittorico” del tutto a vuoto; un “segno pittorico”, in quanto tale, non esiste, o, semmai, è comune a tutti i pittori; dire che ogni pittore “ha il suo segno” non ci dice nulla sul “segno”.
Ma quando parliamo di segnicità in un pittore intendiamo già qualcosa di più, perché,
in qualche modo, carichiamo l’artista di una ideologia, o di una poetica.
Parlare di segnicità significa indicare che l’artista annette, nel suo lavoro, un’importanza prevalente al graphos, alla gestualità del segno inteso come traccia più o meno immediata.
Così, possiamo parlare di un segno gestuale, come primo punto di una progressione lineare. Una maggiore meditazione sul gesto, sulla traccia grafica, porta a una organizzazione dei segni, che si caricano da un lato di simbolicità, dall’altro di numericità, proponendosi come serie.
Ed eccoci dunque al segno seriale, che non è ancora verbale perché non esiste ancora una funzione alfabetica. Terzo polo del discorso è quello appunto costituito dal segno verbale
o segno scritturale, dove i segni grafici appaiono configurati sistematicamente, ognuno ha un valore preciso o quasi, facciano parte di un alfabeto generalizzato oppure no
(perché di alfabeti se ne possono inventare quanti se ne vogliono).
È probabile che questi tre momenti della scrittura, nei confronti dell’arte di oggi, siano da prendere in considerazione contemporaneamente, e che la scrittura debba essere intesa come elemento inglobante, e non come punto finale di un discorso.
Si potrebbe anche dire che la scrittura si conforma su questi tre aspetti del segno, da prendere in considerazione in un ordine progressivo, ma solo per una questione di pratica.
Così, se di scrittura si parla oggi, è per andare un poco oltre il discorso impostato da Filiberto Menna nel 1987, con la mostra e il relativo catalogo Mazzotta, Pittura-scrittura-pittura, supportati anche da interventi di Fulvio Abbate e Matteo D’Ambrosio, che voleva soprattutto segnalare una situazione di scambio, di passaggio, di sconfinamento su entrambi i lati.
Non a caso s’intitolava Passages una successiva mostra curata da Luciano Caramel,
e Sconfinamenti un’altra ancora successiva, ma comunque, entrambe, in linea con questa precisa intuizione o intenzione nei confronti della scrittura.
Come non a caso il citato intervento di Matteo D’Ambrosio s’intitolava Le avventure del segno e, sia detto per inciso, il testo rimane ancor oggi esemplare ai fini del nostro discorso,
parlando con determinazione di un’arte come scrittura, cui si giunge (negli anni ottanta) attraverso un percorso tutto linguistico che ha radici saussuriane e passa attraverso quella “pittura segnica” degli anni cinquanta di cui appunto si diceva.
E non ci sembra che la prospettiva oggi, nei confronti dell’arte, sia molto mutata; semmai possiamo dire che è maturata, portando un’ulteriore precisazione sulla funzione della scrittura come strumento di comunicazione capace d’imprimere all’arte uno scatto d’invenzione in linea con le esigenze di un modello sociale in continua trasformazione.
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