Vincenzo Accame
 
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Rossana Bossaglia

Vincenzo Accame è venuto alla ribalta negli anni sessanta, in un periodo in cui si andava affermando il concettualismo in quanto rifiuto dell’arte come mestiere e privilegio dell’arte come intelligenza interpretativa: estrema rivendicazione, nella scia del Dada, dell’autolegittimarsi dell’arte medesima.

In un tale contesto, il filone della poesia visuale si poneva come difesa di valori estetici di più sottile e vibrata liricità; il connubio tra figurazione e parola, anziché esibire più dichiaratamente intenzioni e valori intellettuali, quando non si limitava a pure tautologie, costituiva il filo d’oro di una leggibilità poetica dell’immagine: nel mentre che sottolineava la sinestesia delle varie manifestazioni artistiche.

Accame mi sembra modello squisito di questa congiuntura culturale: dotato di una sensibilità vibrante, mai estraneo alla perspicuità e bellezza del segno, egli, mentre si occupava esplicitamente di letteratura anche in sede critica, tracciava attorno e dentro la parola e i suoi significati una rete di emozioni esplorative di tipo figurale, che rendevano percepibili motivi nascosti e congiunti.

Da allora, il suo percorso creativo, pur nelle pause di riflessione e nella logica evoluzione espressiva, ha mantenuto questi caratteri d’indagine sottovoce, di delicata penetrazione nel mistero, senza mai indulgere a esplicitazioni vistose ma neppure giocando con preziosismi criptici.

Una sorta di perenne devozione alla poesia afasica e insieme alla figurazione verbale.

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