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Enrico Baj
Scrivere il verde
Ho una brutta calligrafia, scrivo malissimo.
Questo forse rispecchia i miei inizi universitari, quando, nel 1942 a Milano, m’iscrissi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia.
I medici, sin da allora, avevano fama di praticare una ortografia orrenda: si diceva che scrivessero “da cane” ricette e prescrizioni. Questo scrivere “da cane” fu forse il mio primo adeguamento a quegli studi che in seguito, nel 1945, abbandonai, senza perdere il vizio.
L’unico che trovò interessante e espressiva la mia calligrafia fu, nel 1954, un pittore danese del gruppo Cobra, Asger Jorn. Vi chiederete cosa centri tutto questo e concluderete, con buone motivazioni, che lo scrivente, pur di scrivere di sé, descrive anche la sua cacografia.
Ma vi è anche un’altra versione meno narcisistica, più invidiosa: egli avrebbe più volte aspirato a completare la propria traiettoria pittorica con l’introduzione della scrittura visuale e/o poetica e/o cromatica (come nel caso di un Sanesi che drippa macchie di inchiostri colorati) ma sarebbe subito stato inibito dalla sua disabilità di amanuense. Mettetela come vi pare, sta di fatto che ho sempre molto ammirato quello scrivere che facendo bella mostra di sé e della propria raffinatezza meticolosa, si costituisce in opera d’arte autonoma e svincolata dal romanzare o dal poetare.
Quindi ho sempre molto ammirato l’opera di Vincenzo Accame. A me non resta che praticare la non poco esaltante videoscrittura. Nel caso di Accame e di quel suo scrivere, quasi per blocchi o campiture distinte, compatte o poi esplose e sparpagliate, complicate, arzigogolate e mantrugiate, in un fluire fittissimo e rapido, oppure al contrario statico, di stimoli grafici,
il significante linguistico si maschera di un senso di misura e di leggiadria, le quali traggono in inganno lo spettatore.
Infatti chi osservi un “dipinto” di Accame non riesce a concluderlo completandolo a suo modo, seguendo le varie teorie sull’opera aperta o barricandosi dietro al supremo paradigma di Marcel Duchamp, secondo il quale “è lo spettatore che fa l’opera”.
Di fronte a Accame lo spettatore sente che l’opera è conclusa, che può e deve essere decifrata, ma non a suo arbitrio e piacimento, bensì avvicinandosi al significato profondo e al messaggio ivi contenuto. Talvolta, e ci auguriamo sempre di più, Accame scrive con l’inchiostro verde, e questo è già illuminante. Il verde è il colore della Patafisica.
La Patafisica è la Scienza in assoluto, cioè la fonte stessa del sapere.
Sapere che non va confuso con la pericolosa attuale religione tecno-scientifica, costituitasi a nuovo Vitello d’Oro della modernità, in attesa che Ubu scenda dal monte Sinai.
Gli attuali abusi del “verde” contro ogni canonistica sapienziale vengono attuati per favorire il sonno della ragione. Tutto ciò ha portato a ripetute appropriazioni cromatiche indebite da parte di pseudonaturalisti alla moda e di scissionisti padanisti.
A tutti costoro la verdezza di Vincenzo Accame suoni quale monito imperituro: è nella minuziosa scrittura del particolare (che corrisponde alla seconda legge della “scienza che abbiamo inventato perché ve n’era gran bisogno”) che si completa la descrizione del mondo e del suo immaginario.
Quella descrizione ubuica che conferma il primato dell’arte sulla corruzione mediatica.
Non prevalebunt!
(31 ottobre 1996)
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