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Silvio Riolfo Marengo
Dal linguistico al linguistico
Senza un rovesciamento, un calembour sul calembour — “dal ligustico al linguistico”,
in realtà, va letto come “dal linguistico al ligustico” — l’enunciato del titolo non andrebbe oltre una pura constatazione anagrafica (Vincenzo Accame è nato a Loano, Riviera di Ponente), incapace di offrire il benché minimo spiraglio interpretativo sul senso della sua ligusticità, parte inscindibile di quell’autobiografismo, naturalmente attratto nell’orbita della scrittura interattiva, che è invece ben avvertibile in alcune opere “linguistiche” realizzate tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta.
Nell’Histoire d’A, per esempio, “romanzo meta(auto-bio)grafico in 12 tavole” del 1977, dove — avverte Accame stesso — “le lettere alfabetiche A e V adombrate nella ‘forma’ della scrittura provengono direttamente dall’anagrafe”, ma “come una sigla, un marchio che si fa segno”, suggiunge subito dopo: una precisazione in chiave desoggettivizzante che la dice lunga sulla funzione attribuita all’inserimento dei lacerti autobiografici in un contesto di totale segnicità, in cui i fatti “privati” hanno la stessa rilevanza oggettiva di qualsiasi altro elemento, come la forma, il colore, le parole, i numeri, le lettere alfabetiche.
Non a caso, proprio nel 1977, con Il segno poetico, Accame aveva definito a livello critico la sua strategia della “scrittura simbiotica” come ricerca di ogni possibile “interazione tra segni grafici e verbali, tra forme, spazi e dimensioni, tra colori gesti e direzioni, tra simboli, aspetti e proposizioni”. Che in questa dominanza segnica converga, si confonda e talvolta emerga in primo piano anche un deposito memoriale non v’è dubbio.
Dapprima sballottato nel vortice dell’“arbitrarietà” linguistica attraverso cui Accame vuole liberare la parola da ogni ingabbiamento semantico e sintattico tradizionale; in seguito — dopo questo bagno salutare — sempre più indirizzato, si direbbe, verso un approdo di nudi scogli, scarnificato, quasi “ascetico”: un approdo tutto “ligure”, anche se privo di riferimenti a una precisa realtà geografica, com’è quello che Accame ha raggiunto con i suoi Luoghi linguistici (1989), le ultime pagine “scritte” o “disegnate” facendo semplicemente scorrere la matita nera sul bianco elementare della carta.
La componente della radice ligure appare invece più scopertamente nella serie delle Autobiografie portate a termine fra il 1980 e il 1981, come l’Autobiografia V (cm 90 per 120), oggi nel Centro Culturale Balestrini di Albisola Mare, dove l’inchiostro inserisce nella ritmata alternanza delle “situazioni narrative” (la “musicalità” di Accame) alcune citazioni — data di nascita e della pubblicazione dei suoi libri, lacerti dialettali — che sembrano scaturire come “segno primario” dal rapporto che lega gesto e intuizione.
Lo iato intercorrente tra i tempi del “pensare” e i tempi dello “scrivere” è sempre stato al centro degli interessi di Accame. Lo stesso senso di rigore, di vigile attenzione e di calcolata lucidità che percorre tutta la sua opera, a ben guardare, nasce dal bisogno di tradurre l’idea in “segno” o in “parola”. Anche la “frammentazione” è tipica del pensato, che vorrebbe tradursi immediatamente, senza riuscirvi, nel “segno”: il pensiero è veramente il “segno primario” della mente, mentre le parole, le immagini o il suono rappresentano solo la sua manifestazione esterna di secondo grado, realizzata secondo la cultura specifica di ognuno.
Proprio perché era convinto che l’idea precede sempre l’opera, Accame aveva fatto leva sulla forza dell’invenzione fin dai primi anni sessanta, quando si era distaccato dalla poesia lineare per accostarsi alla scrittura visuale, spezzando il verso della tradizione e disordinando la linearità attraverso quella feconda tecnica dell’interazione, teorizzata poi, al tempo di Tool (1964), nel concetto di “simbiosi”: un segno accostato all’altro non è la semplice somma di segno più segno, ma si trasforma in un segno diverso, conduce cioè a una “creazione” linguistica.
L’antenato della sua scrittura visuale non è, insomma, Apollinaire (i calligrammi, in sostanza, non sono che versi normali disposti in modo figurale), ma Mallarmé, che, introducendo la nota definizione del poeta come “inventore” di linguaggio, sembra prefigurare un concetto di poesia orientato verso l’originario significato etimologico di poièsi, vale a dire verso quell’agire al di fuori di ogni “tradizionale delimitazione di genere”, già ricordato da Lucio Vetri come caratteristica di Accame: “La parola si fa produttrice di significati non più, o non più soltanto, lessicali, ma anche ottico-fonetici” e in questo modo dà vita a un universo segnico totalizzante, nel quale vengono, appunto, occultati, o meglio, assorbiti anche gli elementi più intimi e personali.
Orbene, se il mondo di Accame si configura come un’invarianza oggettiva che assegna a ogni elemento lo stesso peso, che cosa resta in definitiva del suo “autobiografismo” e, necessariamente, della sua “ligusticità”? La risposta può sembrare, e non è, ancora, un gioco di parole: la ligusticità di Accame quanto più sembra ridursi al minimo, tanto più si manifesta al massimo grado.
In fondo, anche nella poesia ligure novecentesca tradizionale, uno dei caratteri dominanti è rappresentato dall’intensità espressiva, dalla secchezza, dalla riduzione all’essenziale.
La “linea” di Sbarbaro, ovviamente, scabro, oggettivo, radicato saldamente alla terra, senza alcuna evasione metafisicizzante, piuttosto che la linea di Montale, grondante simboli e mitologie salvifiche: non a caso a Sbarbaro, in occasione del centenario della sua nascita (1988), Accame ha dedicato un grande polittico (sette pannelli lignei di 90 per 70 centimetri), realizzato in collaborazione con Sergio Paladini e oggi proprietà della Cassa di Risparmio di Savona, in un diffuso senso d’intimità “ligustica”, non scalfisce minimamente il rigore del segno calligrafico-verbale. Di Sbarbaro Accame ama soprattutto — e non solo sentimentalmente — la grande lezione di concretezza e di rigore espressivo, la poesia che non è mai “visione”, ma esperienza:
“E gli alberi son alberi, le cose/ sono cose, le donne/ che passano son donne, e tutto è quello/ che è, soltanto quel che è”.
Sono versi che potrebbero senza dubbio figurare in limine alle opere “autobiografiche” di Accame, perché in esse non esistono mai cripte sentimentali o nascondigli simbolici, e anche la memoria più antica diventa “presente”, bruciante comunicazione linguistica.
Ciò non significa tuttavia che, nell’uomo, non esista una ricca vibrazione affettiva, addirittura uno struggimento per la Liguria. A chi gli domanda quali lingue conosca, Accame risponde, non senza una certa ironia e forse una punta di provocazione, di sapere solo il loanese e un po’ d’italiano: e, ligure, lo è da generazioni, fino in fondo, con tutta la carica di pudore ma anche di determinazione e rettitudine mentale tipica dei liguri, a livello di radici, entro le quali affonda la strenua ricerca di essenzialità evidente nella sua opera, che è poi attenzione allo scarto, al minimo frammento, al rapporto sempre molto preciso con la realtà e con se stesso.
Altra conferma che la ligusticità è in lui deposito dell’idea e frutto di un carattere che lo ha sempre tenuto lontano dalle fughe dalla realtà e da ogni mediazione, mantenendo, proprio per questo, una visione più lucida, “impersonale” e, in fondo, anche più “storica” del nostro tempo.
("Parol", n. 3, Bologna 1989)
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