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Alberto Pezzotta
Note sulla scrittura visuale di Vincenzo Accame
A partire da Baudelaire la poesia si è caratterizzata come il luogo privilegiato dell’evocazione dell’ altro: l’ambiguità è diventata il metro di valutazione corretto di un’opera poetica.
E una scienza, la semiotica, che ha eletto il segno a oggetto specifico della propria speculazione, si è delineata proprio nel momento in cui l’attenzione del poeta si focalizzava sul significante (sia come parola sia come fonema) — inteso come antecedente di ogni connotazione possibile del linguaggio.
Non solo: ma una certa tendenza poetica mirava a reintegrare la lingua delle sue valenze magiche — quasi una redenzione alchemica della scrittura (in analogia, s’intende, con l’altra redenzione, quella del mondo).
L’opera di Vincenzo Accame, definibile a scanso di equivoci come scrittura visuale, si colloca, nella ricerca espressiva che le è propria, su una linea dell’ambiguità: ambiguità che apre l’univocità del significato agli orizzonti, aleatori, dell’inesprimibile e dell’inespresso.
Come ha indicato lo stesso Accame nel suo Il segno poetico, la storia della poesia, dai tempi del Coup de dés di Mallarmé, è leggibile come un accostamento sempre più arduo al dire di più, al dissolvere il testo in un sistema di relazioni e corrispondenze (sia interne a esso sia facenti capo all’immaginazione e alla memoria del lettore), volte a dare spazio a una dimensione di comunicazione più ampia.
L’interesse regredisce allora dall’immagine al significante: materia, fonte potenziale di ogni senso ulteriormente (casualmente) formulabile.
Al punto che il segno non viene visto più come cellula fruibile in una sola area semiologica, ma determina (vedi Mallarmé) lo spazio e il vuoto: è estensione dell’universo semiotico nel momento in cui se ne recupera l’Ursinn, ma anche liberazione della parola dall’oggetto.
La nominazione, nell’opera di Accame, viene rovesciata nel vagheggiamento dell’inesprimibile, in nome di una reinvenzione del linguaggio che rispetti anche i meccanismi mentali che portano all’uso di esso. Infatti, dice Accame, intercorre un lasso di tempo tra l’intuizione poetica e la sua traduzione in termini di logocità verbale e discorsiva: tempo perduto in cui l’atto creativo numinoso perde il suo alone d’illuminazione primario, per informarsi in un significato che in fondo non gli appartiene e dal quale esso è agito.
Se le immagini dell’Alchimia oggettificano le strutture della psiche, secondo Jung, non è forse fuori luogo adattarle anche alla poesia e alla scrittura visuale di Accame.
L’Opus alchemico parte da una materia prima identificata con la Quintessenza: la fine coincide con l’inizio, e questo Ouroboros o circolo vizioso sta anche a indicare la mancanza di barriere a una individualità (degli esseri, dei segni) che si deve infrangere.
Ma anche il linguaggio, materia prima (quindi anche fine) della poesia, non si può piegare all’Unità –– è altro da sé, non si appartiene. In poesia, il processo (quasi fisiologico) per cui si passa dall’indeterminazione dell’intuizione alla forma dell’espressione (opposizione tra non verbale e verbale, beninteso, non parliamo certo di forma e contenuto!) è analogo all’Opus: abbiamo una calcinatio in cui la discorsività sublima il dato pulsionale, e una putrefactio in cui la parola viene caricata di una dimensione oscura, ierofanica, evocatoria.
Non è che la parola, la forma — il linguaggio denotato o connotato — sia il contenitore dei dati inconsci. In questa sua putrefactio, o catabasi, si apre proprio al dire di più, mentre nel contempo l’inespresso inconscio sale alle soglie della comunicazione.
Si può vedere il linguaggio poetico come un atanor, il forno alchemico che è anche la cellula primaria: un nucleo numinoso da cui emergono strutture polisemiche, incontrollabili, metaindividuali. Al contrario dell’uso comune del linguaggio, che dissolve il subliminale nell’ovvio della norma.
La poesia di Accame tende a un recupero dell’ermeticità connaturata al poiêin: per essere effrazione del preciso — grazie all’espansione del significato del segno, sottolineando l’ ópsis come fecondo espediente alla polisemia.
D’altra parte, è noto come il Fedro platonico condanni la scrittura, che, con la sua materialità, ostacolerebbe la memoria nella sua ascensione agli archetipi ideali: la parola-segno, per Platone, è espressione degradata dell’essenza delle cose. A ciò la Magia si perita di ovviare tramite combinazioni fonetiche che, riesprimendo la realtà, la ricreino.
Diversa è però la “magia” della scrittura visuale di Accame, che porta a coincidere la fascinazione delle apparenze visive con la sottomissione del segno a un significato: da una parte vuole agire come approssimazione all’ambiguità (alla alterità) primaria, dall’altra come estensione delle capacità soggettive, in particolare della memoria. La trattatistica mnemonica (in particolare Delminio e Bruno) ha organizzato un sistema segnico artificiale (mimetico della phantasia), minuziosamente organizzato sull’Ars Combinatoria di Raimondo Lullo e sulle influenze interiorizzate delle immagini dei pianeti — sistema che consentisse il rinvenimento in se stessi di quelle Ombre delle Idee, fonte sia di una presa di possesso del reale sia di una risoluzione di quest’ultimo nel trascendente.
L’arte della memoria ha dato vita, diremmo, a una platonica memoria senza oggetto, a un allargamento del significante (che abbonda, sotto forma di simboli e figure, in questi trattati) privo di referenti immediati: un’ansia monistica all’essere tutto che appartiene tanto al mago Giordano Bruno quanto ai segni spossessati (di senso) che adopera — un’ansia mediata, s’intende, dal senso della vista.
Le tavole mnemoniche di Accame (ci riferiamo sopra tutto alle sue Auto(bio)grafie del 1979-1981) intendono ugualmente ampliare la soggettività della memoria — non più reminiscenza di ciò che si è stati, ma anamnesi ciclica: fissazione simbolica, si direbbe, della forma individuale del Vago. Una indeterminazione che è effrazione della gregarietà dell’essere, quasi accettazione dell’Eterno Ritorno — e che si vale dell’ambiguità e della casualità dei significati.
L’ambiguità, nell’opera di Accame, è sostanziale, a cominciare dal medium usato, la frase scritta su tela, in diversa misura leggibile, e che non si giustifica con il criterio ornamentale di una tautologia che ribadisca il già dato (come avviene nei Calligrammes di Apollinaire, diretta emanazione dei tour de force alessandrini); e poi per l’intenzione occulta, ove non si distingue quanto è automatico e subliminale dai nodi delle citazioni definite, attorno alle quali si dovrebbe coagulare il senso; per il tempo di lettura e il modo di fruizione — altro dal Guardare con un occhio, da vicino, per circa un’ora… di Duchamp: ci troviamo di fronte ai pannelli da appendere e da contemplare sinteticamente a distanza, o da sceverare come certe ossessive compilazioni di versi figurati del secolo scorso?
L’opera di Accame deve poi all’alea la liberazione delle significazioni individuali; le sue tavole offrono uno spazio non statico all’oggettificazione del proprio essere nel momento in cui le forme scritte interagiscono in chi legge (o osserva). Il solve et coagula è proiettato, in Accame, in una dimensione metaindividuale: nelle sue opere manca catarsi, visto che non si tratta di emergenze dell’oscuro che si risolvano in nitide forme (in seguito a un travaglio di scelta del simbolo e di dissoluzione di questo nell’inconscio): è piuttosto la messa in scena di un universo di significati liberati e indeterminati.
Non a caso un adepto dell’alea come John Cage si è prodotto in testi visuali (i Mesostics re and not re for Merce Cunningham, oltre alle applicazioni dell’ I Ching a scritti suoi o di Thoreau): qui è in gioco l’autodisciplina, il guardare dal di fuori, mentre Accame, da occidentale, preferisce guardarsi nell’atto in cui (si) crea. Caso, ambiguità significano anche scambi di codici, interferenze: il messaggio non solo non s’identificherà in un unico codice di lettura, né sarà segno per sé, ma scaturirà dal rapporto fra ciò che si legge e ciò che non si legge; così nel manifesto della Nuova Scrittura del 1975 l’intervento di Accame (una sovrapposizione parziale di grafia normale su dattiloscritto, con reciproca esclusione d’intelligibilità) si concludeva: “il senso di questo discorso è dato non tanto da ciò che è leggibile quanto: dal rapporto tra ciò che è leggibile e ciò che non è leggibile, in relazione al campo ottico che le due pagine [cfr. supra] vengono a determinare”.
La memoria è allora assunta anche nell’accezione di elisione reciproca di due codici: quello del presente accumulato e quello del subliminale stratificato: sì che il pensiero si perda vertiginosamente, facendosi campo magnetico (di bretoniana memoria) tra due poli unilaterali e gregari: inconscio e linguaggi. Quella di Accame è poi un’immaginazione rigorosa, e il suo specifico di scrittura non è riducibile né a fissazione pittorica né a sfogo tipo informale.
Il rigore nella sua visualità nasce dalla ricerca di un concreto equilibrio tra la coattività dell’oscuro (e quindi l’automatismo, il caso, le interferenze fra segni e sensi) e la logicità univoca del linguaggio, di quella Quintessenza della poesia lineare da cui Accame pur sempre deriva…
Per arrivare a una elusione delle categorie semiologiche, per offrire un sistema che è, a un tempo, lingua allo stato puro e linguaggio modificato dall’uso e infranto ogni volta per scopi nuovi, sempre che viva nella dimensione interiore dell’agirsi. […]
("Testuale", n. 2/85)
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