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Luciano Caramel
Come leggere il segno e scrivere l'immagine
[…] La tela resta in sostanza il foglio, spesso candido. E dove la grafia mantiene un ruolo primario. Per altro sempre entro l’interagire di segni differenti e di differenti livelli significanti. Ecco quindi lettere e parole riconoscibili, e quindi leggibili secondo certe convinzioni e, per le parole, significati. Come, a esempio, la lettera e, o la parola prima.
Queste stesse lettere e parole sono inoltre intrecciate liberamente in caratteri minuscoli
o maiuscoli, corsivi o imitanti quelli a stampa, cosicché la loro forma veicola significati che
a quelli della parola in quanto tale, propri, si aggiungono (amplificandoli o evidenziando la parte sul tutto). E a siffatti segni “leggibili” vengono accostati segni che sembrano imitarli,
ma sono in realtà solo dei puri grafismi automatici. Con essi interagiscono poi altri segni,del tutto liberi da coincidenze con il linguaggio formalizzato della scrittura.
Neppure mancano riferimenti iconici, che con gli altri segni interagiscono, in un intreccio, appunto, verbo-visivo, in cui per altro “visivi” non sono solo gli inserti figurali, ma la stessa scrittura. L’aggregarsi di scrittura e immagine in geometrie più o meno precise e divaganti,
nelle quali sembra di avvertire il coagularsi, e ordinarsi, d’un reale fenomenicamente flagrante e diradato. E c’è allora “una narrazione segnica che non passa attraverso il significato lessicale della parola”, come ha notato Ballo; e insieme la “scrittura nella sua materialità”, come invece ha sottolineato Barilli, e quindi un’immagine che si offre in un primo momento come totalità, secondo la compressione temporale tipica della scrittura, ma subito si apre a percorsi snodati e multipli, talora labirintici.
Con la resa ufficiale di una larga gamma di motivazioni e di “contenuti”, che vanno dall’emergere di pulsioni inconsce e dal concretarsi d’una sorta di segreta autobiografia, all’analisi sottile di nessi tra pensare e scrivere, e più in generale tra idea, o invenzione, e poesia invece che in pittura, o in musica. Il fascino delle opere di Accame (non riusciamo, ovviamente, a chiamarle pitture, o anche solo quadri) sta proprio in questo spessore e varietà di registri.
Meglio: nel loro magico ordinarsi in limpida unità, che sorprendentemente la varietà e la complessità non comprimono, anzi esaltano.
("Il Giornale", 1° maggio 1988)
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