Salvatore D'Addario
 
 
 

Contributi di critica

 

Mariano Apa

Serena notte

Dai copertoni ai catrami, dalle bruciature ossidriche alle corde imbevute di bitume; D'Addario ci ha proposto un campionario, un materiale "notturno" che corrispondeva ad un immaginario "diurno": quando il latte della cera e dei bianchi e le sbavature melottiane di carboncino colorato su intonaci di miele, mimavano la poesia della luce meridiana.

Ma poi è subentrato Mannucci e l'esperienza del "non gruppo" (per dirla con Calvesi) di "Origine".

E allora con Colla e Burri, D'Addario ha scoperto la capacità di manipolare i materiali "trovati" – direbbe Villa – e di bruciare le stoffe, le corde, i ferri, i legni. Di mettere tutte le immagini "trovate" dentro la placenta della Notte.

E la notte è la poesia del "notturno", della alterità, femminile, del ritmo ciclico di una temporalità che è spazio ritrovato, riproposto.

Un tempo che è stagione della penetrazione, della incisione, dello scavo archeologico, dello sprofondamento verticale dentro le famose, liciniane, "viscere della terra".

Se la necessità di D'Addario è stata quella di scandagliare le peripezie e gli scogli del "diurno" e del "notturno", ecco che in questa stagione nuova della sua elaborazione, del suo lavoro artistico, ci conduce innanzi ad una nuova "condizione".

È la condizione della ritrovata, riconciliata verità empirica, della ritrovata possibilità che ai torbidi anfratti e grotte della oscura esistenzialità si sostituisca il viaggiare calmo per sereni paesaggi pianeggianti.

La ritrovata serenità del viaggiare prorompe dalla geometrizzazione dei medesimi materiali e delle medesime tecniche, usate nella precedente stagione "notturna". La geometrizzazione delle bruciature permette che queste, bruciature, diventino filamentose linee, corpuscolari segni che disegnano, che compongono il contorno di una immagine.

La struttura geometrica è la elementare struttura del cono – di una montagna – di un triangolo – per una casa – di una sovrimpressione di strutture geometriche – due quadrati, due rettangoli – per compiere l'illusione ottica di un alternarsi di onde o di colli – marchigiani, naturalisticamente.

D'Addario ha rasserenato i bruciosi postinformali. Ha dedotto – e non rinnegato – la lezione dei Burri e dei Mannucci: ha unito a loro la capacità poetica-letteraria dei pastelli del "Vento" di Fazzini: il Fazzini "meno figurativo" e quasi astratto di alcuni pastelli ultimi che ha composto, con l'informale di Mannucci, ha dato luogo: ad un ordinato lavoro di poesia e di geometria, di naturalismo e di figurazione velata, nascosta, che è tutta da scoprire.

E infatti la novità è che in questa produzione D'Addario continua la pratica postinformale e di astrazione lirica, ma fa intuire, fa scaturire da impercettibili movimenti delle bruciature e della disposizione di tondini e di contrapposti verderami e bronzati ferri, la figurazione evocata, ermeneuticamente disposta a "farsi parlare". C'è un soffio di vita che alimenta le bruciature: non più suture sanitarie di ferite esistenzialmente inguaribili, ma proprio bruciature come coscienza dell'incidere dentro la realtà della materia – lamiere e ferri – e di tradurli in materia viva: terra da un nuovo Pascali ripresa e rattrappita nel fuoco.

Il formato s'è leggermente rimpicciolito: rispetto ai grandi lavori prima presentati, per esempio nel Cantiere di Chiaravalle – con presentazione di Toniato. Ora siamo davanti a fogli, a miniature dilatate. Il formato è un pretesto per ampliare la evocazione, la immaginazione: si ritorna al diurno D'Addario della prima fase, quando era il latte e i mieli dell'intonaco a decidere dell'immaginazione della figurazione.

E così ora D'Addario è notturno ed è insieme diurno: è colui che può attraversare una serena notte e raccogliere a occhi aperti i sogni del giorno e non avere paura degli incubi della notte.

Tra Mannucci e Fazzini, tra astrazione e figurazione, è la poesia la riproposta di D'Addario, una concentrazione alla parola come suono di immagine, come dirompente condizione di un amore per la vita che è esistenza di pittura. Perché dentro la struttura dei materiali e delle tecniche usate vive la necessità di D'Addario, di fare e praticare pittura. La pittura "classica", antica, con i mezzi della condizione contemporanea, come i suoi Maestri hanno insegnato. Poetici paesaggi, alberelli persi su in vetta alla collina.

Quale bandiera segreta nasconde, la vittoria del giorno sulla notte? E quale segreto sorriso ha sciolto i ghiacci degli incatramati copertoni? La pittura: soltanto la pittura, prorompendo, poteva autoproclamarsi calda e felice solitudine della praticata pittura.

1991 (dalla presentazione in catalogo in occasione della mostra personale all'Atelier dell'Arco Amoroso, Ancona, 8-31 marzo 1991)

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